Era stata arrestata nel 2017 durante un concerto al Cairo. Era stata rilasciata un anno fa e viveva in esilio in Canada. Aveva 30 anni.
“Ai miei fratelli e sorelle, ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici, l’esperienza è dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo, sei stato davvero crudele! Ma io perdono”.
Queste le ultime parole di Sarah Hijazi, morta suicida ieri, domenica 14 giugno, all’età di 30 anni. Era stata arresta nell’ottobre del 2017 durante un concerto al Cairo. La colpa? Aver sventolato una bandiera arcobaleno, simbolo Lgbt. In carcere in Egitto era stata stuprata e torturata. Rilasciata un anno fa, dopo forti pressioni internazionali, viveva da allora in esilio in Canada. Le violenze subite l’avevano segnata nel profondo, al punto da compiere il gesto estremo. Era stata accusata di voler “diffondere l’omosessualità” in Egitto. Il suicidio è stato anche confermato dal suo avvocato.
In carcere in Egitto, in questo momento, c’è lo studente attivista e ricercatore, che studia all’università di Bologna, Patrick Zaky. Il ragazzo egiziano di 27 anni è stato arrestato quattro mesi fa, con l’accusa di sovversione e rischia l’ergastolo. La manifestazione di solidarietà più recente, si è svolta il 12 giugno in Piazza Maggiore a Bologna, per urlare a gran voce: «rivogliamo Patrick Zaky con noi in città e denunciamo ogni accordo tra lo Stato italiano e il regime»
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