No time to Die, tiriamo le somme dell’era Craig

L’ultima fatica di Cary Fukunaga, No time to Die, si riconferma un successo al box office e ora, dopo averlo metabolizzato a dovere, tentiamo di collocarlo all’interno della fortunata saga con protagonista Daniel Craig.

Nonostante la presenza di Daniel Craig, nei panni dell’agente segreto più famoso della storia del cinema, fosse già apertamente a rischio dopo il molto criticato Spectre (2015), l’attore britannico sembra più in forma che mai sul piano interpretativo, sebbene l’inesorabile passare degli anni sia ormai lampante. Se questo sia merito dell’enorme quantità di soldi proposta a Craig dalla produzione nel 2017, allo scopo di convincerlo a girare un ultimo capitolo, non ci è dato saperlo, ma i frutti di quest’ultima apparizione sul grande schermo sono evidenti, in quello che appare come il perfetto epilogo di una saga iniziata nel 2006 con l’apprezzatissimo Casino Royal. 

Proprio il primo capitolo conobbe innumerevoli critiche e disappunti già dalla sua presentazione. In particolare un fervente accanimento, da parte di media e irriducibili appassionati, in merito all’aspetto di Craig. Furono messi sotto accusa i tratti somatici poco britannici e più facilmente riconducibili a zone dell’est Europa e nel complesso un aspetto poco avvenente e aggraziato, in netto contrasto con il suo predecessore Pierce Brosnan. Perplessità facilmente spazzate via da una performance lodevole e da una prima pellicola, diretta da Martin Campbell, generalmente molto apprezzata da pubblico e critica. Già da Casino Royal si andavano a delineare le macro differenze con i Bond più classici: una profondità psicologica sensibilmente incrementata, a discapito del distintivo cinismo tipicamente britannico, e una disperata ricerca di fuggire dall’inesorabile destino da killer professionista, nel tentativo di salvare la propria anima o “quel poco che ne è rimasto”. Di lì a poco si sarebbe passati per un più mediocre, ma comunque apprezzabile, Quantum of Solace per poi approdare a quello che, da molti, viene considerato il Bond migliore dell’era Craig, Skyfall.

La pellicola, magistralmente messa in scena da Sam Mendes, fu caratterizzata da un villain finalmente più sfaccettato e credibile, che con grande raffinatezza faceva ciò che un vecchio lungometraggio di Bond mai avrebbe potuto: mettere in discussione la candida e perfetta Gran Bretagna ed evidenziare una supposta inanità professionale di Bond, ormai facilmente sostituito da un mouse e una tastiera. Qualità poco riscontrabili nel capitolo successivo, Spectre, sempre diretto da Mendes, che soffre di una certa stanchezza creativa in scrittura e vede un Christoph Waltz, tanto carismatico, quanto banale nei propositi, a capo dell’organizzazione criminale da sempre responsabile  delle disavventure di Bond e MI6. Nota indubbiamente positiva una Lea Seydoux nei panni di Madeleine Swann, figlia di un componente della Spectre, che rappresenterà per Bond, come Vesper (Eva Green) in Casino Royal, l’unico vero motivo per abbandonare la sua infausta professione. 

Queste, a grandi linee, le premesse di No time to Die, che si pone come obiettivo quello di concludere definitivamente quindici anni di film, nella maniera più coerente ed emotivamente riuscita. Scopo brillantemente raggiunto, al netto di un plot colmo di cliché cari al genere e di un villain ben sostenuto da Rami Malek, ma oggettivamente privo di particolari originalità e generalmente piatto. L’innegabile potenza del film dunque, non risiede più nella trama o nella spettacolarità degli avvenimenti, ma in una perfetta gestione emotiva del prologo e del finale, i quali non potranno che colpire e commuovere gli appassionati.

Le battute finali, infatti, racchiudono uno dei messaggi più significativi della saga. Come già accennato, sin dal primo capitolo James desiderava abbandonare quella che era una vita da dannato, una grigia esistenza da killer. Il suo tentativo con Vesper, in Casino Royal, era tragicamente fallito e la breve e serena pensione di No time to die, gli aveva regalato la fugace e squisita illusione di poter finalmente iniziare a far nascere una vita, invece di continuare a spegnerne altre. Quando finalmente tutto sembra finito e anche l’ultimo ostacolo è stato abbattuto, Bond si ritroverà, per la prima volta nella sua intera storia sul grande schermo, a non avere una via d’uscita, a non potersi salvare, proprio quando la sua occasione lungamente attesa, di una vita con Madeleine e la figlia Mathilde, era così concreta da sembrare vera. Le parole di Madeleine al telefono con James: “E’ finita, nessuno ci farà più del male, se solo avessimo più tempo…”, accompagnate dalla straordinaria e intensa musica di Hans Zimmer, non possono che far rivivere, nella testa dello spettatore, l’intera epopea di Bond e, almeno nel mio caso, farmi commuovere fino in fondo, fino alle lacrime.

Unico innegabile limite, di una focalizzazione totale sugli aspetti emotivi dell’intreccio, è ascrivibile alla necessità di aver visto e minimamente apprezzato i capitoli precedenti, senza i quali il trasporto sentimentale viene meno, lasciando allo spettatore uno spy movie, tutto sommato, appena sufficiente. Critica non imputabile, ad esempio, ad un film come Skyfall, che vive una sua discreta dignità, anche sottratto all’economia della saga.

È la fine di un’era?

Per quanto concerne l’avvenire sul grande schermo di questa icona immortale, la previsione più probabile è che questo ciclo di film con protagonista Craig, abbia stabilito una nuova modalità per narrare le gesta dell’agente 007 e la presenza di un filo narrativo tra un film e l’altro del prossimo Bond sia inevitabile, lasciando spazio anche a soluzioni drastiche come quella di renderlo mortale. Una morte molto discussa che, tuttavia, sembra calzare perfettamente con il diverso assetto geo-politico in cui sono stati concepiti i moderni Bond: un secolo dove l’Occidente non è più padrone del mondo, dove la guerra fredda è finita da tempo e l’agente 007 non è più un metodo di propaganda e dove quindi, anche l’infallibile James Bond può morire.

Si va dunque a concludere l’era Craig, un James Bond indubbiamente atipico, fragile, meno elegante, forse meno bello, forse più goffo e fallibile, ma nella sua imperfezione, nella sua sensibilità, per molti, l’unico veramente degno di essere accostato a sua maestà Sean Connery.

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