Rave Party nel torinese. Torna la polemica

Seimila persone provenienti da diverse regioni d’Italia e dalla Francia hanno partecipato a un rave party in un’area industriale tra Nichelino e Beinasco nel torinese, in un vecchio stabilimento Fiat. Ma cosa sono i Rave?

Rave party
Rave party

 

L’evento è stato organizzato su una chat Instagram e in pochi giorni le adesioni si sono moltiplicate. Alle 21.30 di domenica 31 è giunta la segnalazione del maxi assembramento ai carabinieri, centinaia di auto hanno bloccato la circolazione. Sul posto è giunta anche la polizia, i partecipanti hanno cercato di forzare con i propri mezzi gli sbarramenti delle forze dell’ordine lanciando sassi, bottiglie e artifizi esplodenti verso gli agenti, due dei quali sono rimasti feriti.

Tornano dunque le polemiche dopo che quest’estate si era a lungo discusso del rave organizzato a Valentano, un paese di tremila anime tra gli appennini di Viterbo concluso al sesto giorno con uno smantellamento per mano delle forze dell’ordine. Girolamo Lacquaniti, portavoce dell’Associazione nazionale dei funzionari di polizia, ha spiegato all’AGI quanto sia difficile con il quadro normativo attuale  evitare che migliaia di persone si ritrovino per partecipare a mega eventi musicali non autorizzati. “A differenza di quanto accade in altri Paesi, ad esempio in Francia – spiega Lacquaniti – dove pure eventi di questo tipo sono numerosi, l’organizzazione di rave party di per sé non costituisce reato. E a ribadirlo c’è una sentenza della Cassazione, la numero 36628 del luglio 2017”.

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La sentenza è importante e ha fatto scuola: la Suprema Corte infatti accolse il ricorso di un imputato ritenuto responsabile di avere organizzato senza alcuna autorizzazione, una “festa da ballo” in luogo pubblico e lo scagionava per difetto di “imprenditorialità” della condotta sancendo così che non occorreva alcuna autorizzazione e alcun preavviso per l’organizzazione di un party. Eppure le forze dell’ordine vorrebbero avere norme che consentano di poter avere più controllo su questo genere di eventi.   Serve una norma specifica che ci consenta di intervenire a monte– continua il portavoce dellì’Anfp – e non quando il problema emerge e, di fatto, diventa troppo tardi.

La polemica ruota spesso intorno alla sua legittimità: ma quali sono le origini del rave?

I free party affondano le loro radici negli anni 80, manifestazioni musicali autogestite dove la musica batte a ritmo  principalmente tekno, techno, goa, acid house, jungle, drum & bass o psy-trance. La parola deriva dal verbo “to rave”, ovvero entusiasmarsi, andare in delirio. È nata con una matrice politica precisa, legata alla lotta per il diritto alla casa, alla critica verso la società industriale, espressa riutilizzando i suoi scarti, occupando con il  corpo e il suono fabbriche dismesse, anche di giorno, negli orari della produzione.

Rave party
Rave party

“Organizzare feste in posti abbandonati era un modo di rendersi indipendenti dagli altri e allo stesso tempo era un atto politico” racconta in un’intervista a Vice Pablito El Drito, autore del libro Rave In Italy, “Tutti avevamo letto TAZ, Zone Temporaneamente Autonome di Hakim Bey, una bibbia dell’underground che sosteneva che il modo più efficace di sfuggire al controllo sociale fosse l’appropriazione temporanea di spazi”. Per Bey  la conquista di una proprietà è un colpo inferto alle strutture di controllo, poi via prima che se ne rendano conto. Non si sfugge solo alla sorveglianza, ci si afferma sparendo.  In quel tempo sospeso, si realizza un’utopia. Illegale, discutibile come ogni utopia, ma reale finché dura.

Difficile identificare il primo rave party della storia. La figura dei ravers si lega agli anni ’80 e alla nascita della musica elettronica. A Chicago si cominciarono a sperimentare evoluzioni techno della musica soul e funk, alzando il livello dei bassi e aumentando i bpm. Per le location dei primi party si sceglievano le fabbriche abbandonate delle metropoli statunitensi. È arrivato subito dopo in Gran Bretagna dove ha avuto luogo uno dei più famosi rave della storia, quello di Clink Street, nel 1988.
Sempre in  Inghilterra il 25 giugno 1989  12mila  persone si sono ritrovati sulla pista di atterraggio a White Waltham, lasciando credere alle forze dell’ordine che si stava girando un nuovo video di Michael Jackson. A Castlemorton nel maggio del ’92, in 50mila ballano per una settimana. Gli Spiral Tribe, sound system tekno, saranno poi arrestati, venendo poi assolti dopo due anni da quello che divenne un processo simbolo della generazione rave. Nel 1994 arrivò una “legge anti rave”

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Anche in Italia alcuni appuntamenti storici: 9 giugno 1999 decine di migliaia di persone si sono ritrovate in Toscana. Nel 2007, in 50mila hanno ballato a Pinerolo, in provincia di Torino. Sempre in quell’anno, 10mila un gigante raduno in Salento, Casalabate, per una festa durata due settimane.”Siamo lontani dall’epoca d’oro, il rave sembra una moda e per molti non conserva più lo spirito di un tempo. Ma il rave non è ancora morto, anzi” dice in un’intervista Tobia D’onofrio –  autore del libro “Rave new world” – ”è vivo e vegeto”.

È difficile inquadrare  un movimento pieno di sfumature e contraddizioni. “Non ho la pretesa di spiegare la cultura rave. Viaggia su molti livelli, ma di base è antisistema, antifascista, antisessista, ecologista, propone un’esperienza di autogestione e condivisione” dice D’Onofrio. “Per me è un veicolo di cambiamento, le persone possono crescere e trasformarsi nell’arco di una festa. Il suo livello di apertura permette un’esperienza spirituale. Che sia personale o comunitaria, avviene grazie alla collettività che la tiene in piedi. Lo ritengo uno degli ultimi spazi di libertà rispetto alle norme che regolano i rapporti in società. Ad esempio, le relazioni si basano su fiducia, empatia, e non sul denaro. Per me è un aggiornamento della controcultura hippie in era post-atomica, vicino più di altri alle idee di Kerouac e Burroughs

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