Giuseppe Montella, il carabineire che ha avuto 11 auto in 10 anni

Che qualcosa non andasse, nella stazione dei Carabinieri di Piacenza, era evidente: ma nessun superiore è mai intervenuto. Perchè?

Una sfilza di moto, undici macchine in poco più di dieci anni, tra cui una Porsche Cayenne, tre Mercedes, quattro Bmw e un’Audi. Tutto questo a fronte di una dichiarazione dei redditi che non supera i 31.500 euro lordi. Uno stile di vita, quello dell’appuntato Giuseppe Montella – il “capo” del gruppo di carabinieri/spacciatori di Piacenza – che avrebbe dovuto far insospettire qualcuno. Anche perchè tra la stazione Piacenza Levante di via Caccialupo 2 – la caserma della vergogna – e il Comando provinciale del carabinieri da cui quella stazione dipende gerarchicamente, ci sono due chilometri e duecento metri. Cinque minuti in macchina, quindici a piedi: come è possibile che i vertici dell’Arma di Piacenza non sapessero? Come è possibile che in questi anni non sia arrivata neanche una segnalazione dei traffici, delle torture e degli abusi del gruppo di militari che l’appuntato Montella aveva creato? Una struttura articolata e sfacciata nel suo modo di operare: impossibile ridurre tutto al teorema delle “mele marce”, che viene utilizzato sempre nei casi di operatori delle forze dell’ordine colti in fragranza di reato. A quanto si legge nelle 326 pagine dell’ordinanza del gip Luca Milani, che alla stazione Levante le cose non andassero come dovevano andare non era affatto un segreto. Ne era a conoscenza il superiore diretto, il maggiore Stefano Bezzecchieri, comandante della Compagnia Piacenza. È lui l’ufficiale che scavalca il maresciallo alla guida della Levante e impone all’appuntato Montella di fare più arresti. “Vediamoci quanto prima a quattr’occhi, in borghese, al di fuori del servizio…”, lo avverte al cellulare. L’ordine è chiaro, va eseguito a ogni costo e con ogni mezzo. Pure se questo comporta, per usare le parole del giudice Milani, “la totale illiceità e disprezzo dei valori incarnati dalla divisa”. Con l’unica garanzia dell’impunità: “In presenza di risultati in termini di arresti, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle irregolarità compiute dai loro sottoposti” si legge nell’inchiesta.
L’ultimo arrivato, un giovane maresciallo assegnato di recente alla Levante, è impressionato dalle azioni dei suoi nuovi colleghi. E al telefono si sfoga con suo padre: “Se lo possono permettere perché portano i risultati, portano un sacco di arresti l’anno. Ma perché? Perché hanno i ganci…”.

La “caserma della vergogna” a Piacenza

Ma le intemperanze, che poi si sono rivelate vere e proprie azioni criminali, del gruppo di Montella erano note: ad esempio, comandante della stazione di Campo Dell’Olio, Pietro Semeraro. Parlando col maggiore Bezzecchieri, il 22 febbraio scorso Semeraro si lascia scappare questa considerazione: “Vabbè, comunque i ragazzi della Levante, più che gestiti devono essere ridimensionati, perché, forse, si sono allargati un po’ troppo”.
Insomma, che qualcosa non andasse nel verso giusto si sapeva, o si immaginava. Eppure nessuno ha fatto, o detto, nulla.  Nemmeno i tre comandanti provinciali che si sono succeduti a Piacenza dal 2017 ad oggi. Il colonnello Corrado Scattaretico, che nel settembre del 2018 viene trasferito a Roma, in un ruolo di stretta fiducia dei vertici: vice capo-ufficio del vicecomandante generale dell’Arma. Nemmeno il colonnello Michele Piras, che arriva dal Reparto operativo di Catania, e lo mantiene fino al settembre dello scorso anno, quando è nominato dalla piacentina Paola De Micheli a capo della segreteria generale della neo-ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ed ancora, neanche l’attuale comandante provinciale, il colonnello Stefano Savo. Che nelle intercettazioni lo si sente prima chiedere spiegazioni a proposito di uno degli arresti sotto inchiesta, poi fare i complimenti al maresciallo in comando alla Levante per le operazioni contro lo spaccio. Alla Libertà, il quotidiano della città, Savo ieri ha detto: “Per noi è come un colpo al cuore, da parte nostra c’è totale disponibilità a collaborare per fare piena luce sui fatti. Penso all’amarezza dei miei uomini dediti con onestà e generosità al loro lavoro”. Ma sono parole che lasciano il tempo che trovano: appare evidente che l’appuntato Montella godeva di coperture, e c’è anche un episodio a confermarlo. Siamo al 12 aprile di quest’anno: in pieno lockdown, e violando le disposizioni del governo, Montella dà una festa in giardino. Lorenzo Ferrante, in servizio presso la Centrale Operativa del Comando Provinciale di Piacenza, invia una pattuglia. Appena capisce che la casa è quella dell’appuntato, ordina alla pattuglia di lasciare il quartiere. Non solo. Chiama Montella “per scusarsi per il disguido”, assicurandogli che “non avrebbe redatto alcun documento, per non lasciare traccia dell’accaduto”.

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