Covid: il caso Golia, la sicurezza sul lavoro e l’ipocrisia nella gestione della pandemia

Il noto conduttore de “Le Iene” Giulio Golia ha annunciato sulla sua pagina Facebook di essere positivo al coronavirus. Mercoledì era presente all’udienza del processo Vannini. C’eravamo anche noi.

Non è stato piacevole apprendere la notizia della positività del conduttore delle “Iene” Giulio Golia al coronavirus. Innanzitutto per empatia e solidarietà con una persona che ha appreso di non stare bene, e a cui vanno gli auguri da parte di tutta la redazione di Meteoweek. Poi, perchè quello che è accaduto a Golia potrebbe riguardare anche noi: chi scrive, ad esempio, insieme ad altri colleghi della nostra redazione. Come d’altronde ad altri venti o trenta che, come noi, erano presenti all’udienza finale del processo per l’omicidio di Marco Vannini nel tribunale d’Appello di Roma, alle spalle di piazzale Clodio. C’era anche Giulio Golia, che come molti sanno ha seguito con attenzione tutta la tragica vicenda di Marco, praticamente dall’inizio. Come praticamente sempre accade, eravamo tutti insieme, in una aula di tribunale senza finestre. Vicini, forse troppo vicini. Assurdamente vicini in alcuni momenti, come ad esempio subito dopo la lettura della sentenza: giornalisti, filmaker, operatori video accalcati gli uni sugli altri, ad intervistare i genitori di Marco Vannini. Con buona pace del distanziamento sociale e delle norme di prevenzione. Insomma, nel giorno in cui nel Lazio diventano obbligatorie le mascherine all’aperto, mi ritrovo – io personalmente (ma tanti colleghi con me) a dover preoccuparmi della possibilità di essere o meno positivo al coronavirus. Un pensiero che devo gestire in totale autonomia, visto che dal tribunale non è arrivata nessuna segnalazione, nessuna richiesta. Nessun “alert”. Niente. Il motivo è forse che nel fine settimana il tribunale è chiuso, e quindi – in caso – se ne riparlerà lunedì? Possibile, ma non rassicurante: perchè nel frattempo tutti quelli che erano presenti in quell’aula di tribunale avranno solo la loro coscienza, il loro senso civico – se ovviamente informati della positività di Golia – che impedirà loro di uscire, di muoversi, di evitare contatti. Che imporrà di autoisolarsi, insomma. Eppure la notizia è di dominio pubblico: lanciata dallo stesso Golia su Facebook, è stata ripresa dalla pagina delle Iene e commentata – amaramente – da Selvaggia Lucarelli. Eppure chi era in quell’aula era accreditato: nome, cognome, testata di riferimento. Sarebbe stato abbastanza semplice per il Tribunale contattare le persone presenti in quell’aula. 

La ressa – senza alcun distanziamento – di giornalisti, fotografi e videomakers al funerale di Willy Monteiro

La questione, ovviamente, non è limitata al caso di Giulio Golia, il quale non ha responsabilità specifiche. Mercoledì si è recato a lavorare, come me, come tanti colleghi. Il problema è più ampio: è di sistema, possiamo dire. Perchè quello che è successo mercoledì, io (e chi fa il mio lavoro) lo vede accadere sempre. Personalmente mi è capitato un paio di settimane fa, ai funerali di Willy Monteiro a Paliano. Esequie organizzate in uno stadio per garantire distanziamento e sicurezza, mentre giornalisti e videomakers tutti fuori, ammassati in attesa delle dichiarazioni, in quel caso, del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, quando è uscito e si è avvicinato al gruppo dei reporter, è stato letteralmente preso d’assalto. Immediatamente si è creata una massa umana indistinta: uno sull’altro, con le videocamere e le macchine fotografiche che erano diventate cosa unica con i corpi, con le braccia, i volti protesi per far sentire meglio le domande. Una situazione talmente incredibile ed aberrante, vista la situazione, che alcuni di noi si sono rifiutati di gettarsi nella mischia, hanno fatto un passo indietro. Ma la colpa non è nostra: perchè questo lavoro si fa così. La colpa, o meglio la responsabilità, è di chi non tiene in considerazione questo aspetto. Le dichiarazioni – del politico di turno, del protagonista della vicenda di cronaca, dello sportivo – andrebbero rilasciate in maniera organizzata. Immaginando uno spazio adatto, gestendo il problema ed immaginando una soluzione prima di organizzare un evento. La cosa che stupisce è che non ci sia assolutamente nessuno che si è posto la questione. Eppure – nel caso specifico – eravamo dentro un tribunale. Tutti con la mascherina, certo, ma anche tutti vicini. In alcuni casi troppo. Ovviamente non è un problema che riguarda solo i giornalisti: abbiamo autobus stracolmi, metropolitane altrettanto piene, luoghi di ritrovo che registrano ancora assembramenti, il paradosso di un campionato di calcio in cui ci sono sempre più casi di positività e nel quale si attende un “big match” per rendersi conto che servono regole diverse. Appare tutto un pò casuale, e sopratutto non è chiara la “ratio” di alcune scelte: perchè se il problema è evitare contagi di massa, bisognerebbe gestire meglio situazioni come quelle di mercoledì. Che tutti conoscono, ma che nessuno sembra in grado di voler gestire. Anche perchè, e lo dico con cognizione di causa, molte persone che fanno il mio mestiere sono free lance: quattordici giorni di quarantena potrebbero rappresentare un danno enorme dal punto di vista economico. E non sto parlando della salute, perchè allora ci sarebbe davvero da arrabbiarsi.

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