Covid, sistema sanitario di nuovo al collasso: tutto cambia perché nulla cambi

Il bilancio italiano di casi da coronavirus si aggrava giorno dopo giorno, portando a reazioni scomposte e disordinate da parte di politica e scienza. Guido Bertolini, responsabile del Coordinamento Covid-19 per i reparti dei pronto soccorso lombardi ora lancia l’allarme: “L’unica cosa che si può fare è chiudere tutto, un lockdown a livello nazionale”. Come si è giunti nuovamente a questo punto?

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Pazienza e sacrificio. Erano queste le parole d’ordine della fase 1, quando tutta l’Italia era asserragliata da un virus sconosciuto, intenta a rincorrere un contagio che, inevitabilmente, correva più veloce della burocrazia, più veloce degli aiuti economici. E sono queste le parole chiave – pazienza e sacrificio – che ora vengono rifiutate nelle piazze degli scontenti, di chi nel frattempo ha dato fondo ai risparmi e non può più applicare la virtù della remissività. E non è solo l’umore a cambiare.

Un contagio che sfugge dalle mani

Nel sistema sanitario, il protocollo reso valido durante la prima ondata viene ora rimaneggiato, di nuovo alla rincorsa di un contagio che sembra sfuggire dalle mani, qualsiasi sia il tentativo di tenerlo sotto controllo attraverso delle graduali aperture. In questo improvviso e continuo cambiare direzione, in queste reazioni scomposte, però, al di là di colpe e meriti, emerge con chiarezza un fattore: nessuno sa bene cosa fare, né la politica, né la scienza, né i cittadini. Di certo ci sono colpe individuali, la sottovalutazione estiva del problema, gli assembramenti, la falsa convinzione di poter tornare a uno stile normale.

Le promesse del governo

Ma di certo, a livello sanitario, su qualche aspetto si poteva fare di meglio. Perché la scelta tra fame e salute diventa tanto più drastica quanto più sono deboli gli ospedali, il personale medico sanitario, le Asl. A rivelare le criticità attuali e il perché si sta tornando così velocemente a una situazione emergenziale è Fiorenzo Corti, vicesegretario della Federazione dei medici di medicina generale, che afferma: “Il governo aveva promesso luoghi per la quarantena, i Covid hotel. All’inizio ne sono stati fatti troppi: ad aprile erano occupati 4 mila posti su 43 mila. Poi, da quest’estate, con il decreto legge 34, la gestione è passata dalla Protezione Civile alle Regioni. Sono stati previsti anche finanziamenti per potersi organizzare. Eppure Asl e Ats stanno lanciando soltanto ora bandi per stipulare convenzioni con hotel e altre strutture. E così invece di approdare in strutture protette molti tornano a casa, con il rischio di contagiare le famiglie. Oppure restano in ospedale, congestionando i reparti, già allo stremo”. Secondo Silvestro Scotti, segretario generale della Fimmg, la Federazione italiana medici di famiglia, è stata proprio la sanità territoriale ad esser lasciata indietro. Gli stessi medici di famiglia a cui ora vengono chiesti ulteriori sforzi, e che probabilmente verranno coinvolti nell’effettuazione di tamponi, si ritrovano senza strumenti. In un’intervista rilasciata su Fanpage.it il 9 ottobre, Scotti affermò, lamentando l’assenza di dispositivi di protezione: “Le direzioni generali sanitarie si occupano più delle strutture, degli ospedali, che della sicurezza dei medici del territorio, ai quali poi giustamente chiedono modelli di intervento che in questo momento dovrebbero essere di tipo speciale”.

Senza strumenti, senza personale e ora anche senza protocollo

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Senza gli adeguati strumenti di difesa – un po’ per mancanza di fondi, un po’ per cecità – si cerca ora di modificare il fretta e furia il protocollo stabilito durante e dopo la prima ondata. L’aumento dei contagi da coronavirus sta rivelando l’inefficacia di un protocollo che, senza i giusti provvedimenti, rischia di mostrare tutta la sua inattuabilità. A quanto pare ci si è limitati a cambiare le regole, senza fornire gli strumenti per attuarle. Per questo si corre allora ai ripari con nuovi aggiustamenti procedurali, nuovamente applicati in stato emergenziale. E sono tante le problematiche emerse in questi giorni di recrudescenza del virus.

Lo stress del sistema ospedaliero: l’aumento esponenziale dei malati

In primis, i Pronto soccorso. Diversi sono gli appelli lanciati in questi giorni sul collasso dei Pronto soccorso, che si stanno pericolosamente riempendo di casi Covid. Eppure, evitare il sovraffollamento dei Pronto soccorso era un punto cardine del protocollo anti-Covid. Lo stesso sito del ministero della Salute raccomandava: in caso di sintomi sospetti di contagio Covid-19, rimani in casa, non recarti al Pronto soccorso o presso gli studi medici ma chiama al telefono il tuo medico di famiglia, il tuo pediatra o la guardia medica. Ora i reparti di medicina d’urgenza si stanno riempendo dall’interno dell’ospedale: i posti letto nei reparti Covid stanno terminando e “i Ps stanno diventando un ‘parcheggio’ per questi pazienti anche per 3-5 giorni”, ribadisce il presidente della Società italiana di medicina di emergenza urgenza (Simeu) Salvatore Manca. L’ultimo a lanciare l’allarme sui Pronto soccorso lombardi (e non solo) è stato Guido Bertolini, responsabile del coordinamento Covid-19 per questi reparti. Ad Adnkronos afferma: “Purtroppo, siamo di fronte ad una seconda grave emergenza. Vogliamo rappresentare ai cittadini lombardi cosa sta realmente accadendo negli ospedali della nostra regione. L’aumento repentino dei contagi ha raggiunto il livello soglia che determina uno stress sul sistema ospedaliero. Cosa significa lo stress del sistema ospedaliero? Significa fare i conti con un aumento quotidiano ‘esponenziale’ di malati Covid-19 che arrivano in pronto soccorso”. Questo vuol dire che “in molti casi” i pazienti “non trovano possibilità di ricovero immediato in ospedale per l’assenza di letti disponibili e restano per 24-48-72 ore (ma a volte ancor di più) nell’area del pronto soccorso in attesa di una destinazione”. Il risultato, ribadisce Bertolini, “è avere pronto soccorso in estrema sofferenza con aree sovraffollate nelle quali viene a mancare il necessario distanziamento, aumentando così il rischio di contagio per via aerea, sia i rischi di errore clinico e di non trattare compiutamente i pazienti”.


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Gli asintomatici senza tamponi: il sistema rischia il caos

Altra criticità sulla quale si sta cambiando orientamento: il tracciamento degli asintomatici. Nella lettera inviata dal presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini, e rivolta al ministro della Salute Speranza, la proposta è chiara: consentire, in caso di stress del sistema di tracciamento, di effettuare tamponi solo ai casi sintomatici. Nella lettera viene spiegata la proposta delle regioni: “Ai contatti stretti asintomatici una volta provveduto alla loro identificazione ed al loro isolamento, non sarà necessariamente effettuato il tampone, tranne in casi particolari che saranno valutati dai servizi di sanità pubblica”. Una proposta che, però, scaturisce ancora una volta da uno stato di crisi: il mancato tracciamento degli asintomatici non è legato a una loro minore pericolosità, ma all’incapacità di portare avanti una completa opera di tracciamento in presenza di un elevato numero di contagi. In sostanza, o si cambia in maniera ufficiale la procedura o si rischia di mandare totalmente in tilt il sistema, perdendo definitivamente il controllo sulla curva. Tanti i pareri contrari provenienti dalla comunità scientifica. Tra questi Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova, che ribadisce: “Escludere gli asintomatici dal tracciamento è una catastrofe annunciata. Sono irresponsabili. La vera lotta contro il virus è una lotta contro chi lo trasmette. Tutti i programmi che hanno avuto successo nel contrasto del virus erano basati sul tracciamento degli asintomatici”. Di nuovo: l’unica strategia percorribile è anche la meno auspicabile. E questo è quello che accade quando la “scialuppa di salvataggio” predisposta regge solo quando il mare è calmo. Un controsenso in termini.


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Infine, i medici di famiglia. Durante la prima fase di emergenza il ruolo dei medici di famiglia è stato lasciato alla zona d’ombra dell’autogestione. L’indicazione generale era di non recarsi presso gli studi del proprio medico di famiglia in caso di sintomi da coronavirus. Il medico curante doveva esser contattato telefonicamente, proprio per evitare di infettare un ambiente che invece aveva l’esigenza di restare salubre per ovvi motivi. Già in data 30 marzo un articolo pubblicato sull’Espresso faceva notare il sistema “fai da te” adottato dai medici di famiglia, in assenza di linee guida più chiare: c’era chi si recava di persona dal malato, utilizzando dispositivi di protezione di fortuna, chi ci parlava al telefono, chi si affidava alla videochiamata WhatsApp, e chi cercava di adeguare il proprio protocollo sul caso specifico, in base alla gravità della situazione. Il sito del ministero della Salute indicava: “In caso di dubbi o sintomi contattare telefonicamente il proprio pediatra di libera scelta/medico di medicina generale; se il medico riterrà opportuno effettuare un test, richiede tempestivamente il test diagnostico e lo comunica al Dipartimento di Prevenzione (DdP), o al servizio preposto sulla base dell’organizzazione regionale”.

I tamponi dal medico di famiglia

Ora anche questo protocollo potrebbe venir meno: è in dirittura d’arrivo un accordo d’emergenza per i tamponi rapidi per il Covid negli studi dei medici di famiglia e dei pediatri di libera scelta. Stando a quanto emerso, dal medico di famiglia potrebbero fare i tamponi i contatti stretti di persone positive asintomatiche; pazienti per i quali il medico ritiene necessario il tampone durante una visita; e, in piccola parte, tutti gli altri assistiti. A frenare, in questo caso, sono soprattutto i sindacati, che fanno notare come in assenza della strumentazione adeguata questa nuova procedura possa trasformarsi in una carneficina. Già a inizio ottobre ne aveva parlato Pina Onotri, Segretario Generale del Sindacato Medici Italiani: “Negli studi dei medici di medicina generale non c’è la possibilità di mantenere separati il percorso sporco (casi sospetti Covid-19), con il percorso pulito (altri pazienti), essendo appartamenti in privati condomini. Si corre il rischio concreto di causare assembramenti e diffusione del virus. Rischiamo di fare da untori“. Insomma, non resta che sperare che questi strumenti di protezione ci siano e vengano elargiti in maniera adeguata. Altrimenti, si rischia di tornare la solita vecchia cantilena: questi nuovi protocolli sono davvero convenienti? O piuttosto sono pericolosi, ma anche l’unica strada percorribile? Se fosse vera l’ultima ipotesi, il pericolo sarebbe evidente: staremmo solo temporeggiando prima di un altro, inevitabile, lockdown totale.

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