Speranza: “I nostri dati sul contagio sono pubblici”. Non proprio

Con il Dpcm entrato in vigore il 6 novembre l’Italia è stata suddivisa in tre zone diverse – giallo, arancione, rosso – corrispondenti a tre diversi livelli di allerta dell’emergenza coronavirus. Ma quali sono le valutazioni in base alle quali il governo decide di attribuire i livelli di allerta? E soprattutto, queste valutazioni sono pubbliche? 

speranza - meteoweek.com

Attraverso il Dpcm entrato in vigore il 6 novembre l’Italia è entrata in una nuova modalità di gestione dell’emergenza, in cui le misure restrittive vengono ponderate anche su base regionale. A orientare l’applicazione dei tre colori, dunque, saranno anche e soprattutto i dati a disposizione del governo. Eppure, risulta ancora difficile comprendere quali siano questi dati, chi li analizzi e come venga calcolato, nello specifico, il tasso di rischio. Certo, è possibile consultare il bollettino giornaliero diffuso dalla protezione civile. Ma i dati messi a disposizione del governo per prendere provvedimenti sono ben più complessi e completi. Per semplificare, tutti i parametri presi in considerazione sono contenuti in quattro documenti.

I quattro documenti del governo

Il primo documento è la road map: una vera e propria mappa per il monitoraggio sanitario. Un diagramma di flusso dotato di un impianto logico che dovrebbe regolare in maniera matematica l’applicazione delle misure restrittive in presenza di determinate condizioni. L’analisi dei dati provenienti da questo documento aiuterebbe anche a decretare “se la trasmissione di Covid nella regione è stabile“. Ed è all’interno di questo quadro che si fa ricorso anche all’analisi dell’indice Rt (uno dei 21 indicatori), calcolato dall’Iss, utile per stabilire il grado di stabilità di contagio in una regione. Il secondo documento riguarda i famosi 21 indicatori di rischio, divisi in tre macro-indicatori: la capacità di raccolta dei dati delle regioni, la capacità di portare avanti l’opera di contact tracing (con conseguenti quarantene), e infine la tenuta dei servizi sanitari. Il terzo documento stabilisce i quattro scenari di allerta possibili, è stato definito dall’Iss e si intitola Prevenzione e risposta a Covid-19. Infine il quarto documento è rappresentato dai singoli Dpcm.

Dati sempre più incompleti

Eppure, questo complesso meccanismo di sorveglianza dell’emergenza sanitaria si sarebbe incrinato. Il contact tracing è ormai saltato in parecchie zone che non riescono a recuperare le fila della catena dei contagi. Inoltre i dati provenienti dalle singole regioni sembrano sempre più parziali e lacunosi. Nell’ultimo report settimanale del ministero (19 ottobre-25 ottobre) si legge esplicitamente: “Si osserva una sempre maggiore difficoltà a reperire dati  completi a causa del grave sovraccarico dei servizi territoriali, questo potrebbe portare a sottostimare la velocità di trasmissione in particolare in alcune regioni”. Insomma, per il governo diventa sempre più difficile comprendere la situazione e agire di conseguenza. Inoltre, risultano poco chiari i criteri scientifici sulla base dei quali una zona viene dichiarata rossa. Ciò che sappiamo è che devono verificarsi due condizioni: l’esistenza di uno scenario di tipo 4 (con Rt superiore a 1,5) e la definizione del rischio alto o molto alto sulla base dei 21 parametri sopracitati. E qui si pone un problema di metodo. Come ribadito da Wired: “Per 20 dei 21 parametri non si trovano indicate soglie di riferimento che possano distinguere i livelli di gravità. E alcuni, in particolare, sembrano essere proprio impossibili da misurare con valori numerici, come la ‘possibilità di garantire adeguate risorse per contact tracing, isolamento e quarantena’”.


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I dati sono pubblici? No, anche se dovrebbero

All’interno di questo quadro conosciamo i criteri per stabilire una valutazione del rischio. Non sappiamo, tuttavia, quali sono i dati che si celano dietro questi criteri, e non sappiamo come questi dati interagiscono – nello specifico – nel calcolo dell’allerta. L’8 novembre il ministro della Salute Roberto Speranza, ospite a Mezz’ora in più, avrebbe difeso la presunta trasparenza del governo: “I nostri dati sono pubblici“, aveva detto Speranza. Non è proprio così. E qui si pone un problema di trasparenza. Il monitoraggio settimanale elaborato dal ministero della Salute, infatti, non è reso pubblico. Il report viene elaborato dal mese di maggio ma è destinato al solo uso interno. Impossibile, quindi, farsi un’idea dell’evoluzione degli indicatori in un lasso di tempo più ampio, che vada dall’estate all’autunno. Il ministero si è limitato a pubblicare alcuni dati significativi di questo monitoraggio, senza fornire statistiche e dati per ogni singolo indicatore.

La trasparenza a intermittenza

E’ necessario riconoscere, tuttavia, una prima apertura alla trasparenza da parte del ministero della Salute, che in occasione del Dpcm del 3 novembre ha pubblicato un pdf con i valori dei 21 indicatori relativi alla settimana 18-25 ottobre. Tuttavia, anche in questo caso, i dati sono apparsi più estesi ma comunque incompleti. Senza scadere in facili complottismi, l’incompletezza potrebbe esser dovuta a una reale difficoltà nel reperire dati utili dalle regioni. Lo stesso ministero della Salute avrebbe sottolineato nel documento: per diverse regioni mancano dati affidabili. A questo si aggiungerebbe, poi, un ulteriore passo indietro per quanto riguarda la trasparenza, come sottolineato dal sito di fact-checking la Pagella Politica: il 6 novembre il ministero non ha pubblicato l’aggiornamento settimanale del monitoraggio, neanche quello relativo ai dati più significativi. Eppure, nel decreto Ristori Bis, stando a quanto riportato dal comunicato stampa di Palazzo Chigi, “sono rafforzati gli obblighi di pubblicità e trasparenza in relazione al monitoraggio e all’elaborazione dei dati epidemiologici rilevanti per la classificazione delle aree del Paese”. Nel frattempo si alimentano insinuazioni sull’applicazione delle zone di rischio alle diverse regioni italiane.


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Ad incrementare lo scetticismo, casi come la Calabria, regione che alle soglie del nuovo Dpcm, nel giro di due ore, ha fatto sì che il numero di pazienti ricoverati in terapia intensiva indicati nel bollettino regionale (26 persone) diminuisse fino ad arrivare a 10. Insomma, ci si chiede se le decisioni siano state prese su valutazioni politiche, frutto di compromessi, o se siano piuttosto fondate su criteri scientifici, come sostiene il governo. Se questi criteri scientifici ci sono, però, è necessario renderli pubblici. Il governo ha il dovere della trasparenza, e deve avere anche il coraggio di confessare che i dati a sua disposizione sono lacunosi, se necessario.

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