Dalla censura di Grease a Omero: fino a che punto può spingersi la cancel culture?

Continua la discussione sulla cancel culture, che richiede la censura di opere d’arte e prodotti di massa ormai considerati sessisti, razzisti, o comunque avversi alla nuova sensibilità sulle battaglie civili. Al centro del dibattito ci finiscono Grease, Via col vento, Dumbo e persino Omero. Cosa sta accadendo e quando ci si spinge troppo oltre?

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L’assalto anglosassone alle opere d’arte e di massa prosegue ancora: Usa e Uk volgono lo sguardo al passato, rielaborano i prodotti culturali diventati cult attraverso una nuova sensibilità più attenta ai diritti civili, percepiscono una frizione e propongono la censura. Non si tratta neanche tanto di politically correct, che spesso viene accusato di aver instaurato una vera e propria dittatura culturale. In realtà il politicamente corretto, in passato, è stato rappresentato per molto tempo da un atteggiamento conservatore e bigotto nei confronti di determinati temi considerati spinosi, fino a censurare – appunto – gli aspetti più controversi: era la tv italiana degli anni Novanta, che ad esempio presentava tossici come sbandati nullafacenti (senza indagare, magari, le cause della dipendenza) e contemporaneamente riempiva gli schermi di letterine. Ora la questione è un po’ mutata: alcune categorie fino a questo momento ignorate (o trattate in maniera caricaturale e ridicola) hanno preso coscienza del modo in cui sono state trattate all’interno della rappresentazione pubblica dominante, e hanno giustamente richiesto un cambio di passo. E’ una presa di coscienza sociale e politica che va accolta, non è perbenismo bigotto. Insomma, alcuni la chiamano “dittatura del politicamente corretto”, altri parlano di rivalsa di diritti civili fino ad ora bistrattati.

Il discorso però è carico di sfumature, e rischia in alcuni casi di diventare scivoloso, anche per chi si trova dal lato giusto della questione. Questa nuova linea di pensiero ha portato alla cosiddetta cancel cultureche soprattutto negli Usa sta sollevando un imponente dibattito: la cancel culture produce una situazione sociale in cui una persona, un’organizzazione o un prodotto vengono ostracizzati in risposta a un comportamento ritenuto negativo. E all’interno delle nuove rivendicazioni civili, i comportamenti ritenuti negativi sono principalmente quelli razzisti, sessisti e omofobi. La cancellazione può avvenire in diversi modi, e soprattutto nel caso del MeToo ha preso di mira personaggi pubblici, licenziati o costretti a cancellare i propri account social. Ora la cancel culture sta prendendo piede, rivolgendosi anche alle opere d’arte del passato, proponendo di censurare intere opere o scene considerate controverse per la nuova sensibilità (si pensi al deturpamento della statua di Montanelli). Qui allora è necessario iniziare a guardare le sfumature, e forse bisogna chiedersi quando è il caso di fermarsi.

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Alla gogna Dumbo, Grease, Via col Vento

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E’ in questo modo che il movimento culturale arriva a proporre, ad esempio, di non mostrare più in tv Grease, il musical del 1978, diretto da Randal Kleiser. La discussione si è riaccesa dopo una proiezione che ha avuto luogo sulla Bbc1 il giorno di Santo Stefano. Da quel momento, una pioggia di commenti negativi ha invaso Twitter e Facebook, accusando il film ambientato nel 1958 di essere sessista, “eccessivamente bianco”, omofobo e misogino (per via della trasformazione finale del personaggio Sandy, ma anche e soprattutto per Summer Night, quando il coro chiede a Danny: “Dimmi di più, dimmi di più, lei ha lottato?”, una frase percepita come normalizzazione della violenza sessuale). Al di là del merito delle accuse, non è una gran sorpresa che le rappresentazioni dei decenni passati fossero affette da atteggiamenti di questo tipo, altrimenti ora non esisterebbero movimenti di rivendicazione dei diritti civili. Allora perché ci stupiamo? Non si tratta tanto di stupore, ma di fastidio nel veder riproposti quegli atteggiamenti in un presente fortemente mutato. Ma è legittimo allontanare tutto ciò che ci turba, per il solo fatto che ci turba? Il cuore di ogni battaglia non sta forse nella rielaborazione, nel contrasto, nel confronto?

Sotto accusa anche la Disney, che ha inserito sulla piattaforma streaming Disney+ avvisi e avvertenze sulla presenza di contenuti controversi: “Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti sbagliati nei confronti di persone e culture. Questi stereotipi erano errati allora e lo sono oggi”. Poi ancora: “Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscere il suo impatto dannoso, imparare da esso e stimolare un dialogo per creare un futuro più inclusivo. La Disney si impegna a creare storie con temi stimolanti che riflettano la ricca diversità dell’esperienza umana in tutto il mondo”. L’avviso appare prima della visione di Lilli e il Vagabondo, degli Aristogatti e di Dumbo (in cui un gruppo di corvi è stato doppiato con voci afroamericane in un modo che viene considerato stereotipato). Al di là delle accuse mosse ai singoli film, che possono essere opportune o meno, ciò che è necessario evidenziare è l’atteggiamento della Disney, che non si piega alla richiesta di censura ma invita a osservare quei contenuti con occhio critico. Ecco, l’impressione è che la cancel culture rischi di scegliere la via più facile: oscurare invece di esercitare costantemente senso critico sulle opere del passato. Ma a quel punto ci si trova a punto e a capo: emergeranno altre rivendicazioni, e ci troveremo nuovamente disarmati nell’interpretarle, perché nel frattempo avremo imparato a cancellare e non a criticare. Anche Hbo Max ha assunto la linea della Disney: dopo aver eliminato Via col vento, l’ha reintrodotto con una spiegazione del contesto storico. Stessa decisione presa da Sky Cinema, che ora ha diffuso una dichiarazione rivolta ai suoi abbonati che spiega che alcune “rappresentazioni culturali oggi potrebbero risultare offensive“.

Piano piano che la discussione prende piede passa dal cancellare personaggi pubblici al cancellare cult cinematografici, fino ad arrivare a cancellare opere d’arte del passato. E’ toccato – e qui si sfiora l’assurdo – anche all’Odissea: stando a quanto riportato dal Wall Street Journal, lo slogan #DisruptTexts avrebbe raccolto ideologi della critica, insegnanti, opinionisti e utenti social. Così, Heather Levine, che insegna alla Lawrence High School di Lawrence, nel Massachusetts, annuncia: “Sono molto orgogliosa di dire che quest’anno abbiamo rimosso l’Odissea dal curriculum!”. Le proposte di censura riguardano anche La lettera scarlatta, alcune opere di Francis Scott Fitzgerald e la serie Kingdom of Fire. In quest’ultimo caso, alla Penguin Random House è stato chiesto di rescindere il contratto con l’autrice. La richiesta non è stata accolta, ma il suo agente letterario ha deciso di porre fine al loro rapporto lavorativo.

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I rischi della cancel culture

Insomma, gli esempi sono tanti, i prodotti culturali nel mirino della cancel culture molteplici, e proprio per questo prima di radere al suolo il passato è necessario fermarsi a pensare cosa è lecito fare e cosa no. E’ necessario capire che le opere d’arte del passato vanno contestualizzate, e che è proprio questo rapporto con la storia a spiegare perché e come si è arrivati alle attuali battaglie civili: cancellare il passato vuol dire tagliare il ramo su cui poggia il presente. E’ necessario capire che cancellare è la via più semplice ma la meno proficua, perché insegna ad abolire ma non ad esercitare senso critico. E per quanto riguarda i prodotti culturali del futuro, invece, è necessario comprendere che la battaglia per i diritti civili non può ridursi a una lotta ai simboli: un afroamericano, in un film X, impersona la parte di un ladro, allora il film è razzista. Bisogna scremare, passare al vaglio, anche attraverso opinioni diverse, e spronare i media a evitare approcci stereotipati. Se ci si ferma ai simboli si appiattisce il discorso, i media lo capiscono e imparano a strumentalizzare questa bidimensionalità (i casi di pinkwashing ci dicono qualcosa a riguardo).
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