Saviano, la mafia, la famiglia: quando la provocazione diventa priva di senso

Il giornalista Roberto Saviano, nel tratteggiare in un articolo il ritratto della camorrista Maria Licciardi si lancia in una dichiarazione iperbolica: “Quando mi chiedono quando finiranno le mafie rispondo quando finiranno le famiglie”. Esplode la polemica, ma anche la rabbia di chi reagisce appare fuori fuoco: esattamente come la dichiarazione dell’autore di Gomorra.


“Quando mi chiedono quando finiranno le mafie rispondo quando finiranno le famiglie. Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite. Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità Vi detesto, André Gide”
. Questa è la frase con cui il giornalista Roberto Saviano ha voluto chiudere un suo articolo sul Corriere della Sera nel quale tratteggiava la figura di Maria Licciardi, donna a capo di una famiglia camorrista brutale e violenta, come d’altronde la camorra e tutte le organizzazioni criminali sono. Per chi è appassionato di serie tv ed ha seguito la fortunata e ben realizzata “Gomorra”, alla figura della Licciardi si è più o meno ispirato il personaggio di Scianèl.

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L’articolo di Saviano è – come sempre – documentato e preciso. La capacità dell’autore del best seller “Gomorra” (da cui sono derivano il film e la serie tv) di raccontare la camorra e le mafie è quasi unica: è tra i pochi giornalisti ed autori capaci di restituire appieno quella consapevole “banalità del male” che caratterizza le dinamiche della criminalità organizzata di stampo mafioso. I legami, le faide, l’appartenenza, la animalesca ottusità – unità a strategia e logistica militari – con cui si pianificano e realizzano massacri, omicidi, con cui si creano imperi economici e malsane sacche di “welfare” mafioso che va a sostituirsi a quella dello stato. Una capacità descrittiva da grande penna, che però viene a volte frustrata da un irrefrenabile desiderio di andare oltre, di cercare l’iperbole, di colpire più di quanto già riesca con la sua competenza ed il suo talento.

Maria Licciardi, la capo cosca recentemente arrestata di cui Saviano parla nel suo articolo

E’ un pò questo – almeno per chi scrive – il punto debole di Roberto Saviano: la tendenza a non limitarsi , a voler elaborare un pensiero – e quindi uno scritto – che va oltre quello che è la sua indubbia competenza. E’ evidente che l’istituzione familiare sia centrale nelle vicende di mafia: già il fatto di utilizzare le parole “Famiglia” e “Cosca” praticamente come sinonimi dice molto, della centralità dell’istituto familiare nelle dinamiche di mafia. Ma da qui a sostenere che l’istituzione familiare sia di per se alla base del fenomeno mafioso, al punto da dover essere dissolta per assicurare la fine delle mafie, appare onestamente una esagerazione talmente grande da far venire il sospetto che sia una iperbole voluta e sfuggita di mano.

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Volendo far finta che sia una affermazione realistica, non è nemmeno difficile da confutare: pur con tutti i difetti che le si possono attribuire, la famiglia rimane ad oggi il baluardo all’aggressività di una società basata sempre più sul profitto a cui tra l’altro lo Stato non riesce a porre argini, e che anzi asseconda con privatizzazioni e liberalizzazioni scellerate. La famiglia, nella sua declinazione corretta e “non mafiosa”, è il nucleo all’interno del quale si definisce un micro welfare spesso decisivo. Ed è sempre la famiglia a fornire quei riferimenti etici che possono evitare ad un giovane di scegliere percorsi sbagliati e guadagni facili. Il giudice Falcone sosteneva che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Ma più che in relazione alla fine della famiglia così come oggi è concepita, il termine del fenomeno mafioso lo immaginiamo dovuto alla definitiva scelta dello Stato di uscire dall’ambiguità che fino ad oggi ha contrassegnato le politiche antimafia. Quando termineranno le connivenze, quando le varie “trattative Stato-Mafia” saranno un ricordo oscuro e nulla di più, quando ai giovani del sud (e non solo) saranno offerte alternative reali che partano dall’istruzione e che arrivino al lavoro, quando i grandi patrimoni delle mafie saranno aggrediti con decisione a tutti i livelli, quando si prenderanno decisioni impopolari e coraggiose per strangolare l’economia malavitosa delle cosche (ad esempio legalizzando le droghe leggere), quello sarà l’inizio della fine della mafia. Individuare questo momento con “la fine della famiglia” appare una elucubrazione intellettuale vuota, provocatoria e totalmente  fuorviante. Ed è così, forse, che va letta: un passo più lungo della gamba che porta, spesso, ad inciampare e cadere.

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