“Se fallisce Glasgow, fallisce tutto”, perché l’Inghilterra si è conquistata il diritto di rimproverarci sul clima

Il duro incipit con cui Johnson ha inaugurato il nuovo vertice Onu sul clima, va oltre il desiderio di riconquistare credibilità politica di cui molti lo accusano. 

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“Se fallisce Glasgow, fallisce tutto”

Inequivocabile il monito con cui il premier inglese Boris Johnson ha inaugurato la nuova conferenza Onu sul clima in Scozia. Sono in molti a ritenere che un incipit così duro sia stato dettato in primo luogo dall’esigenza di riconquistare terreno agli occhi della comunità internazionale, dopo che il rapido aumento dei contagi in Uk lo ha messo in cattiva luce agli occhi dei leader delle altre nazioni

Resta però il fatto che l’Inghilterra ha comunque il diritto di redarguire le nazioni sui loro mancati impegni sul clima. Anzi in tal senso, potrebbe anche essere la sola nazione in Occidente che questo diritto se lo è conquistato. Certo, con questo non si vuole sostenere che l’Inghilterra a differenza degli altri stati, stia conducendo una lotta al cambiamento climatico ferrea e rigorosa. 

Ci troviamo però di fronte all’unica nazione che nel mondo che ha proclamato lo stato di emergenza climatica. 

Lo ha fatto nel 2019, con una mozione portata avanti dal laburista Jeremy Corbyn, che presentò la sua iniziativa parlando di un “dovere storico” che la sua nazione doveva assolutamente adempiere. Il discorso con cui Corbyn presentò il provvedimento inoltre, ci permette anche di poter portare alla luce alcune ambiguità da cui la sinistra planetaria non si è mai scostata sulla difesa dell’ambiente. Il leader laburista parlò infatti della necessità di approvare la sua proposta, per prevenire la svolta anti ambientalista di Donald Trump alla Casa Bianca. Corbyn però ne parlava come di una stortura di esclusivo appannaggio dei Repubblicani. Insomma, era arrivata la destra, si diceva, e questi erano i risultati. Non una tesi totalmente falsa, considerato i danni che Trump e Bolsonaro hanno portato con il loro negazionismo. Corbyn però sembrava dimenticarsi in quel frangente, di quanto fossero trumpiane in materia di ambiente, anche le idee, o meglio, l’atteggiamento e il curriculum del diretto sfidante dem alle presidenziali Beto O’Rouke. Questi infatti aveva sì, formalmente appoggiato l’idea di un nuovo green deal per gli Usa e per l’intero Occidente. Al contempo però, si trattava di una figura che aveva a lungo sostenuto l’industria del carbone, ritrovandosi in alcuni momento anche a votare insieme ai repubblicani sul tema. Come quando votò in accordo con la destra, per due volte di seguito, per eliminare le restrizioni sull’esportazione del petrolio. 

In ogni caso, la mozione di Corbyn, pur trovando il voto contrario del Ministro dell’Ambiente, venne alla fine approvata.  Un’istanza che nacque dopo la pubblicazione del 2018 di uno dei rapporti più politicamente rilevanti della lotta al riscaldamento globale, ovvero il report Global Warming del 2018. 

Il rapporto intergovernativo Global Warming del 2018, redatto da oltre 90 scienziati provenienti da tutto il mondo

Il leader laburista Jeremy Corbyn (Getty Images)

Un report molto lungo, di oltre quattrocento pagine, in cui gli studiosi si erano in primo luogo preoccupati di delineare i possibili scenari futuri causati dall’innalzamento della temperatura oltre 1,5 centigradi. Un disastro da evitare a tutti i costi, anche perché gli analisti certificarono nel rapporto anche il reale aumento di un grado della temperatura. Un fenomeno che già da solo costituiva la base perfetta per quella stessa escalation di calamità naturali a cui stiamo assistendo negli ultimi due anni. E d’altronde la previsione degli scienziati in tal senso era già in quel momento semplicemente catastrofica: continuando di questo passo, mantenendo questi livelli di inquinamento, la temperatura è destinata a salire anche di due o tre gradi, si leggeva nel report. E il superamento di quel grado e mezzo, visto come il vero e proprio punto di non ritorno, venne fissato prestissimo: si sarebbe cioè verificato entro il 2030. 

Il Global Warming 2018, che oltretutto fu presentato dagli stessi governi firmatari dell’Accordo di Parigi, sconvolse il mondo intero, anche perchè era il primo vero studio approfondito sul tema a distanza di cinque anni dall’ultimo. Al dossier collaborano oltre novanta ricercatori provenienti da 44 paesi diversi. Gli studiosi lanciarono una sorta di ultimatum alla politica globale: senza riforme epocali, la strada purtroppo era già tracciata e avrebbe inevitabilmente portato in pochi secoli all’estinzione dell’umanità, o meglio, della civiltà umana per come la conosciamo. 

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Una situazione drammatica, di cui però soltanto l’Inghilterra prese atto, finendo con l’approvare la proposta di Corbyn dichiarando lo stato di emergenza climatica nella nazione.  Un passo significativo che nessun’altra nazione europea ha mai minimamente pensato di intraprendere. 

Nemmeno l’Italia, che oggi con Mario Draghi rivendica l’attivismo politico della nostra nazione sul tema, ha mai sentito l’esigenza di un compiere un passo del genere.

A parole d’altronde, siamo tutti bravi.

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