Paolo Sorrentino e la (sua) serialità

Dai tempi degli esordi con L’Uomo in Più (2001), passando per il successo fragoroso nonché Oscar Miglior Film de La Grande Bellezza (2013), il napoletano Paolo Sorrentino di strada ne ha fatta tanta trasformando quello che era il suo cinema indipendente e di nicchia in un fenomeno sempre più di richiamo, e sostanzialmente di “massa”.

Dalle “minute” produzioni Indigo alle grande produzioni hollywoodiane Sorrentino è riuscito a coniugare idee e numeri, sacro e profano, serio e faceto. Eppure, di quest’autore schivo e visionario, dallo stile graffiante e magniloquente il cinema ha saputo catturare una parte importante, ha saputo fotografare la complessità intima e strutturale di un autore che ha riversato nei suoi film (Le conseguenze dell’amore in primis, ma poi anche This Must Be the Place o la satira politica sottile e graffiante de il Divo) il dolore di una solitudine invasiva, la malinconia di una speranza che è labile anche se ultima a morire, la ricerca ossessiva di un posto in cui sentirsi meno soli.

Sorrentino e la (sua) serialità: l’idea in più

E dopo aver attraversato con limpido ardore le odissee umane di dipendenze letali, ossessioni maniacali, spasmodiche ricerche, bellezze estasianti e conturbanti bruttezze, Sorrentino ha deviato dalla pista sicura e rassicurante del suo cinema sempre più di successo per fare infine (anche lui) capolino nel mondo sempre più galoppante e attuale della serialità. Ma la sua, come da copione, è stata senz’altro “l’idea in più”.

L’idea di affacciarsi nel mondo episodico delle serie con un grande pamphlet sulla Fede (intesa all’apparenza in termini religiosi ma più profondamente come qualcosa in cui credere o non credere tout court), sull’immagine controversa della Chiesa cattolica, e sulla figura quasi mitologica di un Papa diverso (giovane, di idee rivoluzionarie, nuovo), è infatti un’idea che denota tutto il coraggio sprezzante di questo regista consapevole delle proprie capacità e padrone dei propri mezzi.

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The Young Pope, il primo esperimento seriale di Sorrentino

The Young Pope, ovvero la storia di Lenny Belardo, orfano proprio come il regista Sorrentino, e ritrovatosi a vestire la stola bianca, racchiude infatti tutta l’essenza di un credo che implica molti più dubbi che certezze, che vede il miracolo come mezzo operante di un credo speranzoso ancor prima che misericordioso, che raduna insieme anime di ogni genere: disperate, peccatrici, smarrite.

Ed ecco allora che il Papa buono e bello (Jude Law) che beve Cherry Coke ed è attraversato dalle stesse debolezze e ipocondrie di ogni essere umano che si rispetti, rappresenta il mezzo perfetto per attraversare il mondo complesso e composito della serialità, disegnando i tanti personaggi di una Chiesa buia e corrotta, dove la purezza del bianco è riservata unicamente alle vesti papali, mentre tutt’attorno dilagano senza sosta peccato e peccatori di un nero fagocitante.

The New Pope, la conferma del Sorrentino seriale

Costretto dunque a moderare il suo stile per farlo aderire alle mini-puntate di un cinema in pillole quale è oggi la serialità (grande qualità in spazi autoconclusivi più ristretti ma storie per forza di cosa dilatate nel tempo), Paolo Sorrentino ha trovato nel format a episodi un mezzo congeniale al suo stile iconico e visionario, dominato dalle geometrie perfette di un mondo che appare modellato su schemi e regole ma che poi (dietro le quinte) è animato dal caos più totale, descrive umane marginalità nel loro tentativo di affrancarsi dall’anonimato, un teatro dell’assurdo che nel suo paradosso descrive bene la nostra realtà odierna di solitudine e apparenza.

E allora proprio qui con il papa giovane e poi il papa nuovo (prima Jude Law poi John Malkovich, entrambi fantastici protagonisti di una celebrità altera e vacillante) che gli subentra, lasciando inalterato il messaggio rivoluzionario di un papa dalla spiccata fragilità umana, Sorrentino mescola al meglio la compiutezza del suo primo cinema con la maestosità della grande produzione della sua seconda fase, dilatando ai tempi di una stagione la sua teatrale messa in scena, incanalando prosa registica e concettuale in un prodotto che è un piccolo grande gioiello di audiovisiva precisione e ideologica complessità.

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Dal minimalismo concettuale al “massimalismo” scenico di Sorrentino

Dal grande e onnicomprensivo al piccolo ed esaustivo, dal minimalismo concettuale al “massimalismo” scenico, il passaggio da cinema a serie è stato per Sorrentino il poker d’assi per riadattare il suo linguaggio, ampliare il suo pubblico, rilanciare il suo messaggio, rinnovare alcuni schemi e confermarne tanti altri, lasciando momentaneamente in stand by il suo alter ego e attore feticcio (Toni Servillo) per abbracciare un sontuoso e numeroso cast di tanti grandi interpreti internazionali, e riuscire ancora volta in quell’impresa di progettualità che a oggi lo vede annoverato come uno dei maggiori registi italiani e internazionali.

Un regista che sa il fatto suo, e che ha colto in pieno la chiave del successo, di un barcamenarsi altalenante tra regole e rivoluzioni, adesioni e opposizioni, creando mondi immaginifici, libertini e appassionati dove in un modo o nell’altro “Hanno tutti ragione” e dove – in un modo o nell’altro -tutti (fedelmente) ci specchiamo e riconosciamo.

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