Covid: identificare chi si aggreverà è possibile

Identificare i pazienti che rischiano di soffrire della forma più grave di Covid-19 è fondamentale per organizzare per tempo le terapie intensive e somministrare cure. Oggi ciò è possibile grazie a studi e allo sviluppo di nuovi metodi. Innanzitutto, sappiamo che i soggetti di sesso maschile, di età più avanzata, obesi o affetti da altre malattie importanti e con saturazione dell’ossigeno inferiore al 90%, sono più a rischio.

Differenze nella risposta immunitaria

Laura Bergamaschi, immunologa italiana, ha spiegato che “Abbiamo esaminato 207 soggetti positivi al Sars-Cov-2 e li abbiamo confrontati con soggetti sani. Trovando che i soggetti che si ammalano della forma più seria di Covid, quella che richiede il ricovero in ospedale, hanno una risposta immunitaria tardiva e un’infiammazione sistemica (ovvero che riguarda una pluralità di organi) già evidente quando compaiono i primi sintomi. I pazienti che si ristabiliscono senza particolari problemi hanno nel sangue una quantità maggiore di cellule T, cellule B e anticorpi, rispetto ai pazienti che poi finiscono in terapia intensiva. E questi ultimi, già dal primo esame del sangue effettuato in ospedale risultano avere un grado di infiammazione anormale”.

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La neopterina

Un altro marcatore che può aiutare a identificare i pazienti che possono ammalarsi di Covid più facilmente è la neopterina. Questa sostanza, già usata come marker di patologie infiammatorie croniche come l’artrite reumatoide o la colite ulcerosa, viene secreta dai macrofagi. Questi sono cellule del sistema immunitario preposte a inglobare i microrganismi invasori e a secernere citochine. Un alto livello di neopterina nel sangue è indice di iperattivazione del sistema immunitario. In particolare ciò accade nei macrofagi, che sono responsabili di una parte importante della risposta infiammatoria al Sars-Cov-2. E questo è un segnale che è già stato osservato nelle fasi precoci di infezioni virali come il dengue, l’epatite B, l’Ebola e l’influenza.

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Il sangue rivelatore

Il sangue è dunque fondamentale per aiutare i medici a predire quali pazienti, a tre giorni dall’ammissione in ospedale, potranno recuperare senza bisogno di ventilazione, e quali invece peggioreranno nelle due settimane successive richiedendo la terapia intensiva. Lo suggerisce uno studio pubblicato su eLife, che considera i cambiamenti nel sangue riscontrati in 982 pazienti Covid positivi in vari momenti del loro ricovero ospedaliero. In particolare, i parametri che riflettono l’attivazione o lo stato funzionale delle cellule sanguigne sarebbero più affidabili indicatori della severità della malattia rispetto a parametri più tradizionali come il numero dei linfociti o delle piastrine. Anche molecola PTX3, coinvolta nei meccanismi dell’immunità e dell’infiammazione, e la sfingosina-1-fosfato, sono importanti marcatori che potrebbero aiutare l’identificazione dei pazienti ad alto rischio. Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’istituto Humanitas di Rozzano, ha dichiarato che: “Nei pazienti malati di Covid-19 la molecola PTX3 è presente a livelli alti nel sangue circolante, nei polmoni, nei macrofagi (ovvero le cellule della prima linea di difesa dell’organismo) e nel rivestimento interno dei vasi sanguigni, ovvero l’endotelio vascolare”.

Granulociti

Un semplice esame del sangue all’accesso al pronto soccorso, quindi, permetterebbe di individuare i pazienti più a rischio. Si può anche misurare un altro parametro correlato al grado di infiammazione dell’organismo, ovvero la concentrazione nel sangue di tre tipi di globuli bianchi: i granulociti neutrofili, i granulociti eosinofili e i granulociti basofili. Uno studio recente di ricercatori del Karolinska Institutet mostra che i casi di Covid più gravi sono associati ad una concentrazione sanguigna superiore alla media di neutrofili, e a un abbassamento degli eosinofili e dei basofili. Un’abbondanza di neutrofili nel sistema circolatorio, infatti, può indicare un’eccessiva quantità di granulociti nei polmoni infiammati. Il numero di neutrofili, nel corso dell’infezione, dovrebbe progressivamente abbassarsi.

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Attenti a quel gene

Infine, la gravita dei sintomi, può dipendere anche dai geni. Lo suggerisce uno studio pubblicato a dicembre su Nature, con prima autrice Erola Pairo-Castineira dell’Università di Edimburgo. Si evidenziano due componenti del rischio di mortalità. La prima è la suscettibilità alle infezioni virali (condizione particolarmente ereditabile, come si è visto per virus respiratori come l’influenza), la seconda propensione a sviluppare serie infiammazioni polmonari. Il gene CCR2, in particolare, promuove lo spostamento dei macrofagi verso i siti dell’infiammazione. E può essere quindi responsabile di un incremento dell’infiammazione, ovvero a un esito negativo della malattia. Un ulteriore fattore genetico che può avere un ruolo nell’evoluzione della malattia è il gene IFNAR2. Questo ha un ruolo protettivo perché legato alle funzioni degli interferoni, importanti per la loro capacità di stimolare il rilascio da parte dell’organismo di componenti essenziali della risposta precoce alle infezioni virali. Si è visto che una perdita di funzionalità del gene IFNAR2 è associato alle forme più gravi di Covid-19 e di altre malattie virali.

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