Cassazione, parlare male del capo non è reato

Le critiche al proprio datore di lavoro sono all’ordine del giorno, ma attenzione a dove e come parlarne. A chiarire la questione legata alle possibili conseguenze disciplinari del parlare male del proprio capo, è intervenuta la Cassazione. 

La Cassazione ha stabilito che non ha rilievo disciplinare una conversazione in chat del tutto estranea all’ambiente di lavoro. Alla base la storia  di un dipendente reo di aver criticato i responsabili della società nella quale lavorava.

Una sentenza depositata oggi dalla sezione lavoro, ha sancito che parlare male del proprio datore di lavoro “non ha rilievo disciplinare”, se si fa in un ambito estraneo al contesto. La Cassazione si è pronunciata a proposito di una controversia tra un dipendente e l’azienda in cui lavorava nel 2017, in cui quest’ultima aveva intimato un licenziamento “per giusta causa” verso il lavoratore reo di aver “criticato e denigrato i responsabili dell’impresa”.

La sentenza dopo il ricorso in Cassazione

Il tribunale di Udine aveva dichiarato in primo grado illegittimo il licenziamento “per difetto di giusta causa”, ed in seguito la Corte d’appello di Trieste aveva specificato che la conversazione via chat “non avesse alcun rilievo disciplinare“, condannando la società a pagare un’indennità risarcitoria al lavoratore. In quell’occasione venne però accolto in parte il ricordo dell’azienda, accertando il “minimo rilievo” delle altre due contestazioni.

Nella sentenza di oggi, la Cassazione specifica “si può sostenere che, per il mezzo con il quale erano state veicolate (una conversazione privata su Whatsapp, applicazione che consente lo scambio di messaggi e chiamate telefoniche), la condotta era potenzialmente lesiva: premesso che non integra una condotta in sé idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto l’aver espresso, in una conversazione privata e tra privati, giudizi e valutazioni, seppure di contenuto discutibile, ove, come nel caso in esame, sia stato escluso in fatto che tali dichiarazioni fossero anche solo ipoteticamente finalizzate a una ulteriore diffusione – scrivono i giudici del ‘Palazzaccio’ – resta irrilevante lo strumento di diffusione utilizzato“.

La Cassazione ha inoltre accolto il ricorso del dipendente inerente le altre due contestazioni, e disposto un processo d’appello-bis davanti ai giudici triestini.

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