Omicidio Chiara Poggi, Stasi: “Sono innocente, ho la coscienza leggera”

Alberto Stasi è ritenuto dalla Giustizia l’omicida di Chiara Poggi. Lui però si è sempre dichiarato innocente e anche ora, a 15 anni dal delitto, afferma dal carcere la sua estraneità alla vicenda. 

Una incredibile intervista ad Alberto Stasi, ritenuto il responsabile dell’omicidio dell’allora fidanzata Chiara Poggi, è stata realizzata dal programma Le Iene a distanza di quasi 15 anni dal celebre delitto di Garlasco.

Stasi sta scontando in carcere una condanna a 16 anni ma solo ora “Ho deciso di parlare per dare un senso a questa esperienza, perché certe cose non dovrebbero più accadere” ha dichiarato. “Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, se il sistema che c’è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa“.

L’OMICIDIO DI GARLASCO

Chiara Poggi è una studentessa di 26 anni residente a Garlasco, vicino Pavia. Nell’agosto del 2007 viene trovata morta nella sua abitazione proprio da Stasi, il quale viene da subito indagato come responsabile. Viene assolto per due volte, ma nell’ultimo processo riceve una condanna a sedici anni di carcere.

Alberto Stasi si trova detenuto nel carcere di Bollate e si dichiara quindi non responsabile per la morte di Chiara nonostante la decisione dei giudici. “Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando. Nell’immaginario comune – continua – un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua“.

Chiara Poggi

LE COLPE DEGLI INVESTIGATORI

Stati accusa gli investigatori del Ris di non avere svolto il loro lavoro correttamente. “Sono passati 15 anni ma in quegli anni i Ris di Parma erano un po’ mitizzati. La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio – racconta -. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa. Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze di inezie, di incapacità di tornare indietro. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il Pm non è mai andato a dire ‘Questo provvedimento era prematuro’, perché poi l’accertamento definitivo risultava, appunto, negativo”.

IL FUTURO DI ALBERTO STASI

Oggi ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente – dice Stasi -. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi. Se hai la fortuna, o sfortuna, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell’azienda più grande d’Italia“.

Stasi al tempo dei processi

LA RESPONSABILITA’ DEI GIUDICI

In conclusione dell’intervista, il giornalista chiede ad Alberto cosa vorrebbe dire ai giudici che l’hanno condannato. “Non saprei perché sono, in qualche modo, e in negativo, i protagonisti di questa vicenda – risponde -. È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone. Il loro non è un mestiere banale, ha conseguenze sulla vita delle persone, come un medico in sala operatoria: ci sono lavori che non comportano queste responsabilità, altri invece sì. Se si decide di intraprendere un certo lavoro, una certa carriera, deve essere fatto in modo coscienzioso perché poi anche lì entrano dinamiche normali, di lavoro. La carriera, l’ambizione, il posto in un’altra sede, tutte cose che non dovrebbero avere nulla a che fare con la giustizia”.

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