Coronavirus: gli scienziati ne sanno di più. Ecco le scoperte

Una battaglia quotidiana, che va avanti ormai da mesi: gli scienziati di tutto il mondo stanno correndo una corsa contro il tempo per scoprire più cose possibili sul coronavirus. 

Un virus nuovo, sconosciuto e misterioso: da quando è apparso in Cina, la scienza ha ingaggiato contro il nuovo coronavirus – e la Covid 19, la malattia causata dal nuovo patogeno – una lotta senza quartiere: per capire come funziona, come si diffonde, come aggredisce l’organismo umano e come si cura. La strada è ancora lunga, ma qualche risultato è arrivato.

Trasmissione per via aerea

Ad esempio l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammesso che il rischio di trasmissione aerea del virus esiste e può rappresentare un problema soprattutto in luoghi chiusi e affollati. Il coronavirus quindi si diffonde non solo attraverso le goccioline più grandi, i cosidetti droplet, del diametro superiore ai 10 micron. Su questo tipo di secrezione aerea agisce in modo importante la gravità, portandole al suolo in pochi secondi. Anche le goccioline più piccole, l’aerosol, sono  pericolose: perchè rimangono in sospensione nell’aria per tempi molto più lunghi. Si può fare qualcosa per rendere sicuri i luoghi più critici come gli ambienti chiusi e di dimensioni ridotte? Il rischio zero non esiste, ma la ventilazione e la cura della qualità dell’aria giocano un ruolo fondamentale nella gestione del rischio. Fondamentale, in modo evidente, l’uso delle mascherine.

Raggi ultravioletti

Uno studio italiano ha dimostrato che una piccola dose di raggi ultravioletti UvC (radiazioni che non arrivano sulla Terra perché bloccate dall’atmosfera) disattiva in pochi secondi droplet contenenti Sars CoV-2. Risultati simili sono stati ottenuti con i raggi UvA e UvB, quelli da cui ci proteggiamo con le creme solari. Gli autori dello studio si sono chiesti se possa esserci una correlazione tra irraggiamento solare e epidemia di Covid-19. Analizzando la quantità di radiazioni in 260 Paesi dal 15 gennaio a fine maggio, la corrispondenza con l’andamento di Sars-CoV-2 è risultata quasi perfetta: minore è la quantità di UvA e UvB, maggiore è il numero di soggetti infetti. Non il caldo, ma l’effetto dei raggi ultravioletti è letale per il virus. L’idea è quella di utilizzare lampade a raggi Uv per disinfettare luoghi chiusi. Tutti i raggi Uv sono però pericolosi per l’uomo e ad oggi sono utilizzati solo per sanificare gli ambienti (senza persone) e gli oggetti. Sono allo studio lampade con lunghezza d’onda che eliminino qualunque potenziale tossicità per l’uomo per poter disinfettare gli ambienti.

10 volte più mortale dell’influenza

A sei mesi dall’inizio dell’epidemia è stato possibile stimare con maggiore precisione quanto è davvero letale il Covid-19, cioé quante persone uccide l’infezione, tra quelle che si infettano. Un’analisi dell’Ispi basata su test sierologici eseguiti in Europa conferma che la letalità del virus in Europa occidentale si aggira intorno all’1% delle persone infette: non il 2-3 per cento che si era ipotizzato inizialmente, ma nemmeno il valore dell’influenza stagionale, che è 0,1%. Secondo un’analisi dell’Università Vita e Salute del San Raffaele tassi di mortalità grezzi più elevati che ha registrato la Lombardia sono nella media europea dopo la standardizzazione per età. In pratica, la percentuale di anziani in Lombardia, doppia rispetto alla media delle regioni europee più colpite dalla pandemia di Covid-19, sarebbe la ragione dell’alta mortalità italiana. Non c’è solo questo a dare conto del numero delle vittime: ci sono le azioni intraprese, gli sbagli, l’impreparazione, lo stress del sistema sanitario, la circolazione del virus che per un mese era sottotraccia, l’assenza di terapie, se non specifiche, almeno sperimentate.

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Nove su dieci sono stati uccisi dal virus

È stato uno dei «tormentoni» delle conferenze stampa nella sede della Protezione Civile, appuntamento quotidiano per comunicare il bollettino dell’epidemia. «Morti con Covid e per Covid», sottolineava la distinzione il capo del dipartimento, Angelo Borrelli. E se ne deduceva che le cause del decesso in buona parte potevano essere attribuite soltanto alla presenza di altre patologie e non all’infezione innescata dal virus. Ora Istat e Iss hanno analizzato circa 5 mila schede e hanno definito la distinzione tra decessi «per» coronavirus e «con» coronavirus. Le conclusioni: nell’89% dei decessi di persone positive al test, l’infezione da coronavirus è la causa direttamente responsabile anche se sovrapposta ad altri problemi di salute. Significa che 9 italiani su 10 ricoverati tra febbraio e maggio in ospedale e che non ne sono usciti, sottoposti alla diagnosi col tampone, sono stati vittime del Covid: Sars-CoV-2 può rivelarsi fatale anche da solo.

L’immunità dura pochi mesi

Gli ultimi studi proposti dagli scienziati mostrano che l’immunità sembra indebolirsi drasticamente nel giro di pochi mesi. I ricercatori del King’s College di Londra hanno visto che il livello di anticorpi raggiunge il suo picco dopo circa tre settimane dalla comparsa dei sintomi per poi gradualmente diminuire. Tre mesi dopo l’infezione soltanto il 17% di chi ha contratto il virus mantiene la stessa potenza di risposta immunitaria, destinata a ridursi in certi casi fino a non essere neppure più rilevabile. Un’altra ricerca pubblicata da poco su Nature va nella stessa direzione: si è visto che i livelli di anticorpi protettivi diminuiscono di oltre il 70% in convalescenza e in alcuni soggetti non sono più rilevabili.

La possibile risposta immunitaria dei linfociti “T”

Gli anticorpi non sono l’unica manifestazione alla risposta immunitaria, un ruolo importante lo hanno anche i «linfociti T», un tipo di globuli bianchi specializzati nel riconoscimento delle cellule infette da virus, parte essenziale del sistema immunitario. In un articolo pubblicato su Cell i ricercatori del Center for Infectious Disease and Vaccine Research di La Jolla (California,Usa) sostengono di aver trovato particolari tipi di linfociti T in grado di riconoscere e combattere Sars-Cov-2 sia nei pazienti guariti da Covid-19 sia in persone che non hanno mai contratto la malattia ma che probabilmente hanno avuto a che fare con altri coronavirus.

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Il coronavirus si trasmette in gravidanza

L’eventualità di trasmissione intrauterina del virus è stata a lungo negata. Si è sempre pensato che i neonati si ammalassero subito dopo la nascita venendo in contatto con la madre infetta o durante il parto. Nelle ultime settimane però tre diversi studi (uno italiano, uno americano e il terzo francese) hanno dimostrato che Sars CoV 2 si può trasmettere anche in gravidanza: il virus infatti è stato trovato nella placenta e nel sangue ombelicale di quattro neonati. L’evento è raro ma possibile. È importante sottolineare che l’infezione attraverso la placenta non implica necessariamente rischi per il feto che non hanno subito malformazioni.

I sintomi restano anche dopo la guarigione

Una volta guariti dal Covid-19 con doppio tampone negativo non è detto che spariscano anche i sintomi. Secondo uno studio della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli di Roma l’87,4% degli ex pazienti riferisce a 60 giorni la persistenza di un sintomo, in particolare affaticamento e dispnea. Il fenomeno dei malati di lunga data è una condizione infelice che si protrae con alti e bassi di sintomi debilitanti , ma non così gravi da richiedere un ricovero. Sono persone che non possono riprendere la loro vita normale e che spesso non vengono credute. Per non parlare di chi si è ammalato gravemente e delle conseguenze a lungo termine: il 30% dei guariti sembra avere problemi respiratori cronici, in alcuni casi irreversibile.

 I geloni a mani e piedi

Tra le reazioni più strane emerse nei pazienti ci sono i geloni ai piedi ed alle mani, individuati sopratutto su bambini e adolescenti. Sono arrivate segnalazioni da tutto il mondo, e per questo si è pensato a una correlazione con Sars-CoV 2: una manifestazione anche tardiva del virus dal momento che spesso nei casi segnalati i tamponi risultavano negativi. A distanza di mesi sono stati eseguiti anche molti test sierologici: solo nel 10% dei casi mondiali sono risultati positivi. A questo punto sembrerebbe non esserci un legame marcato tra geloni e Covid-19: il mistero resta irrisolto.

Il gruppo sanguigno ed il contagio

La notizia che i gruppi sanguigni potessero essere un fattore di rischio o di tutela dalla malattia Covid-19 ha circolato per diversi mesi. Gli studi scientifici hanno però pareri contrastanti. Una ricerca della Columbia University ha verificato, ad esempio,  che il sangue di gruppo 0 espone a un rischio lievemente inferiore di infettarsi rispetto agli altri gruppi sanguigni. Dalla stessa ricerca è emerso che invece chi ha il gruppo A ha una probabilità leggermente inferiore di finire in terapia intensiva. Un altro studio pubblicato invece dal Massachusetts General Hospital ha concluso che il rischio di finire in terapia intensiva o di morte è risultato indipendente dal gruppo sanguigno.

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