Baby pensioni: costano quanto il reddito di cittadinanza

A fornire i dati è uno studio della Cgia, secondo il quale sono quasi 562mila le persone pensionate da almeno 40 anni, poco prima della fine degli anni ’80. L’età media dei baby pensionati si aggira, ad oggi, intorno agli 87,6 anni.

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(Foto di Andreas Rentz, da Getty Images)

Da uno studio della Cgia arrivano i nuovi dati sulle baby pensioni e sul peso che, ancora oggi, grava sulle casse dello Stato. Parlando in termini numerici, la cifra è altissima: si tratta di circa 7 miliardi di euro l’anno. Tradotto in percentuali, lo 0,4% del Pil nazionale. Per fare un raffronto, sarebbe il corrispettivo dell’importo previsto quest’anno per il reddito o pensione di cittadinanza. Oppure, visto sotto un’altra ottica, il costo delle baby pensioni è maggiore di due miliardi della spesa che nel 2020 è destinata ai beneficiari di quota 100. Lo studio in questione ha sfruttato i dati Inps sui baby pensionati, creando un raffronto, appunto, con il peso economico di reddito di cittadinanza e quota 100. A commentare il quadro che ne emerge, il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo. L’esperto afferma, a proposito di reddito di cittadinanza e quota 100: “Due misure, queste ultime, che sono nel mirino dall’Unione Europea. Non è da escludere, infatti, che Bruxelles ci chieda di rivederle, in caso contrario corriamo il pericolo che una parte degli aiuti previsti dal Next Generation EU ci siano negati”.

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Chi sono i baby pensionati?

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(Foto di Valery Hache, da Getty Images)

Ma qual è il profilo medio di questi baby pensionati? Chi sono e quando hanno potuto usufruire di un sistema di pensionamento anticipato estremamente flessibile? A rispondere è ancora una volta Paolo Zabeo, che afferma: “Il termine baby pensionati è ovviamente informale, non ha alcun fondamento legislativo e abbiamo deciso di racchiudere in questa categoria coloro che hanno lasciato il lavoro prima della fine del 1980. In totale sono quasi 562 mila le persone che non timbrano più il cartellino da almeno 40 anni. Di queste, oltre 386 mila sono costituite in massima parte da invalidi o ex dipendenti delle grandi aziende. Se i primi hanno beneficiato di una legislazione che definiva i requisiti in misura molto permissiva, i secondi, a seguito della ristrutturazione industriale avviata nella seconda metà degli anni ’70, hanno usufruito di trattamenti in uscita dal mercato del lavoro molto generosi. Dopodiché, contiamo altri 104 mila ex lavoratori autonomi, oltre la metà proveniente dall’agricoltura, e solo una piccola parte, pari al 10,6 per cento del totale che corrisponde a poco meno di 60 mila unità, è formata, invece, da ex dipendenti pubblici. Ricordo che molti di questi impiegati hanno potuto lasciare definitivamente la scrivania dell’ufficio in età giovanissima, grazie alla legge approvata nel 1973 dal governo allora presieduto da Mariano Rumor”.

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A che età questi baby pensionati avrebbero lasciato il posto di lavoro? Lo studio risponde con dei dati: i dipendenti pubblici si sono pensionati in media intorno ai 41,9 anni; i lavoratori privati, invece, intorno ai 42,7. Resta però un dato: quei 40 anni come soglia per il pensionamento, che hanno consentito di anticipare di circa 20 anni quello che oggi sarebbe un pensionamento raggiungibile con quota 100. Queste persone, ad oggi, hanno un’età che si aggira intorno agli 87,6 anni.

Per quanto riguarda i generi, invece, anche in questo caso è necessario fare un distinguo. Sono soprattutto donne, coloro che hanno avuto accesso alle baby pensioni, tra l’altro con uno scarto importante: sono donne circa 446mila baby pensionati su 562mila, circa il 79,4% del totale. Gli uomini, invece, rappresentano il 20,6%. In sostanza, in termini quantitativi le donne rappresentano una grandissima fetta dei pensionati in questione. Ma alla domanda: chi tra i due generi è andato in pensione prima? In questo caso, la risposta riguarda gli uomini, pensionatisi mediamente intorno ai 40,6 anni, rispetto ai 43,2 delle donne.

“Italia tra i Paesi che spendono di più per previdenza, sacrificando l’istruzione”

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(Foto di Andreas Solaro, da Getty Images)

A questo punto il segretario della Cgia Renato Mason tira le somme sulle conseguenze che questo sistema ha comportato non solo sulle casse dello Stato, ma anche sulla storia degli investimenti (o, piuttosto, mancati investimenti) attuati in questi anni: “Non c’è nulla da stupirsi, dunque, se nello scacchiere europeo l’Italia, anche al netto delle uscite assistenziali, sia da anni tra i Paesi che spendono di più per la previdenza, sacrificando altri settori come quello dell’istruzione, dove siamo tra le realtà che in Europa investono meno”.

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In Italia, tra l’altro, la spesa previdenziale continua ad allargarsi anche in virtù di un fattore demografico: “Registriamo un’età media tra le più elevate al mondo: facciamo pochi figli, ma viviamo meglio e di più di un tempo, quindi la popolazione tende ad invecchiare. Si pensi che nel 1981 il numero degli over 80 presenti nel nostro Paese superava di poco il milione. Nel giro di 40 anni gli ultra ottantenni sono quasi quadruplicati: all’inizio di quest’anno avevano superato quota 3,9 mln”. Insomma, in uno scenario in cui sarà necessario prendere decisioni, riformare e investire, questi numeri tornano utili. Resta da vedere in che modo si riuscirà a gestire questo piatto della bilancia, appesantito da scelte previdenziali risalenti a più di 40 anni fa e da un ineluttabile invecchiamento della popolazione.

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