Che fine hanno fatto i pescatori di Mazara prigionieri in Libia

Non è passato un giorno senza che i familiari dei 18 pescatori sequestrati in Libia non abbiano fatto appello all’Unità di crisi della Farnesina, al Ministro degli Esteri, al Governo, per chiedere notizie sul rilascio e sulle trattative. Il loro grido, però, è ancora inascoltato.

 “Liberate i pescatori di Mazara”. E’ questo il grido disperato dei familiari dei pescatori di Mazara, che continuano la loro protesta davanti a Palazzo Montecitorio chiedendo che le vite dei loro uomini sia considerata. Sono trascorsi 45 giorni da quando i due pescherecci della marineria di Mazara del Vallo – l’Antartide e la Medinea – sono stati sequestrati dalle milizie libiche, a 38 miglia da Bengasi. A bordo, c’erano 18 componenti dei rispettivi equipaggi: pescatori siciliani, senegalesi, tunisini e indonesiani. La loro colpa, è quella di essersi ritrovati in acque internazionali, in un tratto di mare rivendicato da decenni dalle autorità libiche.

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Mazara del Vallo è da quel momento una città in attesa. I familiari chiedono notizie che non arrivano. “Ci sentiamo un po’ abbandonati, c’è fiducia nelle istituzioni, ma finora non abbiamo visto niente si concreto”, dice Anna Giacalone, la madre di uno dei pescatori. Non le bastano le rassicurazioni della Farnesina che le ha garantito che gli uomini sono “in buone condizioni di salute”. Non le basta sapere che, secondo fonti non confermate dal Ministero, lo scorso 20 ottobre sarebbe dovuto iniziare il processo a loro carico. Un processo mai iniziato, ma nessuno sa il perché. Per questo motivo, un gruppo di familiari, con gli armatori dei due motopesca, da settimane ormai presidia Palazzo Montecitorio, per sollecitare interesse da parte delle Istituzioni. C’è anche chi ha sta presidiando l’aula consiliare del comune di Mazara del Vallo, con il sostegno dell’amministrazione comunale.

“Noi da qui non ci muoviamo, restiamo piazzati perché da qui nessuno può far finta di non vederci e rendersi conto di quello che sta accadendo a dei padri di famiglia che erano usciti semplicemente per andarsi a guadagnare il pane”, dice Leonardo Gancitano, armatore dell’Antartide, uno dei due pescherecci sequestrati. Alcune settimane fa, una loro delegazione era stata ricevuta a Palazzo Chigi ma il tutto si è risolto nel silenzio ed ora tutto tace, di nuovo. Nessun contatto telefonico, tra l’altro, è stato stabilito tra i pescatori e i familiari, nonostante qualche appuntamento poi sfumato. In queste settimane, a Mazara del Vallo un altro gruppo di familiari è sceso in piazza, ma nulla sembra servire a qualcosa.

Una storia che si ripete

Tra le accuse contestate ai 18 pescatori c’è anche il traffico di droga. L’ipotesi non rientra tra le imputazioni per cui potrebbero essere processati in Libia e, tra l’altro, la contestazione sarebbe saltata fuori soltanto durante gli ulteriori accertamenti. Non è una storia nuova, comunque. Già nel 2012 le autorità libiche sequestrarono tre pescherecci di Mazara del Vallo: “Boccià”; “Maestrale”; Sirrato”, denunciando giorni dopo il rinvenimento di alcune anfore antiche. In quel caso servì l’intervento di Sebastiano Tusa, all’epoca soprintendente del Mare della Regione Siciliana, che smontò le accuse con una perizia. Nel 1996 toccò all’imbarcazione Osiride di Domenico Asaro, che trascorse sei mesi di prigionia in Libia dopo essere stato esposto ai colpi di mitra da parte delle milizie libiche. E ancora nel 2010 e nel 2012 sempre in quel tratto di mare. Il pescatore Roberto Figuccia fu invece sequestrato due volte nel 2015 e nel 2018.

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