Cosa ci insegna l’Islanda sulle quote rosa

L’Islanda segna il primato in Europa di un parlamento formato in maggioranza da donne, con 33 seggi occupati da deputate femmine. 

Le quote rosa? Polemica sterile, che punta a risultati senza raggiungerli. Sembra essere più o meno questa la lezione che ci arriva dall’Islanda, che non ha avuto bisogno di quote rosa per il sorprendente risultato delle elezioni. Lo Stato segna il primato in Europa di un parlamento formato in maggioranza da donne, con 33 seggi – dei 63 seggi dell’Althingi, l’Assemblea unicamerale islandese – che saranno occupati da deputate. Una percentuale inizialmente data di oltre la metà, al 52,3%, salvo poi il riconteggio che ha cambiato le carte in tavola. Il riconteggio dei seggi ha evidenziato che il risultato è cambiato, portando le donne elette al numero di 30, già raggiunto anche nelle elezioni del 2016. La percentuale è quindi del 48%, e non del 52%, ma resta comunque una vittoria e la più alta percentuale di donne legislatrici in Europa.  Un risultato che nessun Paese del Vecchio Continente aveva mai raggiunto, neanche la Svezia, la cui soglia era il 47% di deputate, secondo i dati dell’Unione Interparlamentare. Fuori dall’Europa, in testa c’è il Ruanda con il 61,3% di donne nella Camera bassa, seguito da Cuba (53,4%) e Nicaragua (50,6%). In Italia, la percentuale di elette alla Camera è del 36,06%, in Senato del 35,11%.

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Eppure l’Islanda, pioniere nell’uguaglianza di genere, non ha quote legali sulla rappresentanza femminile in parlamento, così come invece viene richiesto in Italia e in altri paesi. Senza quote rosa, senza polemiche sterili e senza cliché, il Paese è tra i più egualitari del World Economic Forum negli ultimi 12 anni ed è stato, tra le altre cose, il primo paese ad eleggere una donna come presidente nel 1980.’ Si trattava di Vigds Finnbogadottir, 50 anni, poi rieletta per altri tre mandati e in carica per 16 anni. Anche Katrin Jakobsdottir, l’attuale premier, è una donna anche se il voto le ha lasciato un pò di amaro in bocca dal momento che il suo partito Sinistra-Verdi ha perso tre seggi, finendo al terzo posto dietro ai suoi due alleati. Un governo che sembra funzionare, grazie a rimodulazioni delle tasse sul reddito rese più progressive e a un aumento del budget per l’edilizia popolare oltre che a politiche di genere ugualitarie. Risale proprio all’Islanda la prima legge sulla parità di retribuzione, datata al 1961. Nel 2018 è stata approvata una legge che impone alle aziende con oltre 25 dipendenti una certificazione che attesti la parità retributiva.

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Eppure, i risultati sono arrivati dove c’è meno bisogno. In Islanda la differenza media fra le retribuzioni degli uomini e quelle delle donne è del 14/20%, percentuale inferiore rispetto a quella che si riscontra in tutti gli altri Paesi europei. In Islanda, l’80% delle donne lavora e la legislazione in tema di violenza di genere, quote rosa e maternità è da tempo molto avanzata. Certo, sono i risultati di moltissimi sacrifici e di lotte avanzate nel tempo ma anche il segno che per cambiare la cultura spesso e volentieri c’è bisogno di azioni, stimoli, e poche polemiche.

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