Muore dopo autopsia su donna con epatite C. Colpa della mascherina?

A distanza di anni, la procura dovrà fare luce sulla morte di uno specialista contagiato mentre eseguiva gli esami medico legali.

Una donna è morta per epatite C e dopo dieci giorni la stessa sorte è capitata al professionista che aveva eseguito l’autopsia sul suo corpo. Che mascherine impiegavano? I dispositivi protezione individuale utilizzati bastavano a proteggere l’equipe che effettuò un’autopsia sulla donna? Il gup chiede alla procura di Roma un approfondimento d’indagine sullo strano decesso di Rufino Vacca, 64 anni, tecnico di Anatomia patologica presso l’ospedale San Giovanni Addolorata di Roma.

Anche i due colleghi ricoverati

L’ospedale romano San Giovanni Addolorata, teatro del tragico evento – Meteoweek

L‘uomo è morto dieci giorni dopo l’autopsia, stroncato dallo stesso virus che aveva causato la fine di una donna su cui Vacca, infermiere e anatomopatologo, stava eseguendo gli esami medico legali. Anche gli altri componenti dell’equipe si sentirono male l’undici agosto 2013, durante l’autopsia eseguita su una donna morta a causa dell’epatite c: l’anatomopatologo e l’infermiera furono ricoverati a causa di un forte malessere ma poi si ripresero. I due riuscirono a cavarsela dopo un lungo periodo trascorso allo Spallanzani. Tragico epilogo invece per Vacca, spirato pochi giorni dopo.

La mascherina chirurgica bastava a evitare il contagio?

Adesso sta al pm capire se la mascherina usata da Vacca, una normale chirurgica, fosse sufficiente a proteggerlo dal contagio rivelatosi poi fatale. Una Ffp2 o una Ffp3 avrebbero potuto salvare l’uomo? A questo quesito dovrà dare una risposta il consulente nominato dalla procura. Ma non finisce qui. Bisognerà verificare anche le linee guida: che dicevano in merito all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuali?

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Ciò che ad oggi è certo è che nella sala dove venne effettuata l’autopsia l’aria non risultava contaminata, non essendo stato rilevato alcun elemento patogeno. È la prima conclusione dei Nas dei carabinieri dopo aver esaminato i filtri dei condizionatori e gli scambiatori d’aria che alimentavano la sala autoptica. A nulla è valso per il 64enne il disperato tentativo di trapianto di fegato al Policlinico Tor Vergata dopo il malessere avvertito mentre effettuava l’autopsia assieme ai colleghi. Sul decesso del tecnico di anatomopatologia si mosse all’epoca la stessa regione Lazio all’epoca, spinta dall’esigenza di fare chiarezza. Tre giorni dopo la morte di Vacca la regione convocò d’urgenza le direzioni sanitarie di tutte le aziende del Lazio per fare il punto sul rischio clinico e le infezioni ospedaliere e verificare il rispetto delle linee guida nelle sale autoptiche. Il 19 agosto di quello stesso anno fu anche convocata la Commissione ispettiva regionale.

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A sette anni e mezzo di distanza si vuole chiarezza su una faccenda dall’epilogo così tragico. Tanti sono gli interrogativi su cui occorre fare luce. La scomparsa di Vacca è considerata un’eccezione. I casi analoghi si contano, infatti, sulle dita di una mano. Ora bisognerà appurare se l’uso di dispositivi con una maggiore capacità di filtraggio sarebbe stato sufficiente a bloccare il contagio e perciò a salvare la vita a Rufino Vacca.

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