Coronavirus, dicevano che sarebbe andato tutto bene. Ma com’è andata, in realtà?

L’11 marzo 2019 il direttore dell’Oms dichiara la pandemia da Coronavirus. Il mondo è cambiato però già da qualche mese e alla saturazione delle terapie intensive, ai decessi, ai contagi si accompagna un grido di speranza. “Andrà tutto bene”, si cantava dai balconi. Ma è davvero così?

“Andrà tutto bene”. Si cantava dai balconi in piena pandemia. L’incubo contro il Coronavirus in Italia è iniziato ormai quasi un anno fa, quando a Codogno si è rivelato il primo caso di contagio da Covid. Già ad ottobre, però, il panico era arrivato a Wuhan, solo che non era stato riconosciuto. Bisognerà attendere al 31 dicembre – data ufficiale di inizio della pandemia – per avere i primi casi di polmoniti che vengono ascritte però proprio come polmoniti anomale, cioè dalle cause non ascrivibili ad altri patogeni. Poco dopo, all’inizio di gennaio 2020, la città è un focolaio e il contagio si espande in tutta la Cina.

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Il 21 gennaio le autorità sanitarie locali e l’Organizzazione mondiale della sanità annunciavano che la trasmissione del nuovo coronavirus era possibile da uomo ad uomo, anche se il virus era precedentemente passato dall’animale all’essere umano. In Italia i casi erano pochissimi e tutti provenienti dalla Cina: due turisti cinesi di Wuhan; un ricercatore italiano; un diciassettenne, rimasto bloccato a lungo a Wuhan a causa di sintomi, non positivo ma in osservazione allo Spallanzani. Tutte dimesse, tutte isolate, tutte guarite. Ma il 30 gennaio l’Oms inizia l’allerta, dichiarando che l’emergenza sanitaria era ormai pubblica e che il rischio di contagio era ormai molto più che una probabilità.

21 febbraio, tutto ha inizio. O fine?

Il 21 febbraio 2020 è il giorno del nuovo focolaio in Lombardia. Chiudono alcuni dei paesi colpiti: Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo. Il contagio si è ormai diffuso nel nostro paese, soprattutto nel nord. Il 4 marzo chiudono scuole e università; i positivi sono circa 2.700. L’8 marzo la Lombardia è “zona rossa”. Il 9 marzo arriva il primo decreto restrittivo. Inizia in questo momento la diffusione dell’hashtag #iorestoacasa, iniziano i canti sui balconi parallelamente con le limitazioni personali con cui tutta l’Italia inizia a convivere. Si può uscire solo per comprovate ragioni di necessità come per fare la spesa, per esigenze lavorative, per l’acquisto di farmaci o per altri motivi di salute. Iniziano le campagne di solidarietà, i concerti online, gli appelli a rispettare le regole. Inizia la pressione del sistema sanitario, terapie intensive sature, morti e decessi senza fine. Inizia il bollettino medico delle ore 18.00, la fuga di notizie, l’era della post-verità, quella di quando sono i media a raccontare cosa accade, e il come modifica il cosa.

Si cerca insomma di contenere il contagio. Ma l’11 marzo 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, annuncia che la fase che stiamo vivendo “può essere caratterizzato come una situazione pandemica”. Ovvero: dichiara pandemia. L’Italia si prepara al peggio, la situazione è assurda e paradossale; la pressione è immensa, a livello sociale ed economico. Le cose, come sappiamo, non sono migliorate da allora. Dopo settimane e settimane di lockdown, un respiro è arrivato in estate. Dopo “chiusi tutti”, è stato il momento del “liberi tutti”. E così la curva si è prima appiattita, poi è tornata a salire.

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E oggi siamo alle prese con la seconda ondata. I contagi sono risaliti, più forti di prima. La situazione è già vista: economia crollata, lavoratori in difficoltà, ospedali di nuovo allo stremo. La sensazione è quella di rivivere un dramma, e certo ce lo aspettavamo. Credevamo di essere pronti, ma ora rispetto a qualche mese fa ci sono meno speranze. Non si ricanta sui balconi, adesso. E in fondo, a pensarci bene, viene il dubbio che sia andato tutto così bene come si pensava…

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