Il Pd sceglie Conte e poi vota Draghi a forza. La sconfitta della linea dem?

Il governo Draghi è ora pienamente operativo, e avrà il compito di traghettare l’Italia verso la fine di questa emergenza sanitaria, economica, sociale e politica. All’interno della maggioranza ci sono quasi tutti i partiti, tranne Fratelli D’Italia e Sinistra italiana (o quello che ne rimane). Il Pd passa direttamente dal governo Conte II al governo Draghi. Cosa vuol dire per i dem questo mutamento?

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In questi giorni di crisi di governo si è tanto parlato delle fratture interne al Movimento 5 stelle, forse perché erano le più evidenti e le più preoccupanti. Già prima della fine del Conte II il Movimento era spaccato in due fronti: l’ala governista alla Di Maio, che aveva alzato gli scudi in difesa di Conte; e l’ala ortodossa alla Di Battista, che aveva iniziato a ribadire quanto non fosse necessario difendere Conte ad ogni costo. Da quel momento, è stata una escalation: la linea ortodossa si è piegata, “o Conte o morte” ribadiva il Movimento. Poi Conte è stato scalzato dal nuovo venuto, Mario Draghi, e a quel punto la frattura è risultata evidente, fino alle recenti defezioni in Parlamento in occasione del voto di fiducia. Eppure, in tutto questo trambusto, un altro partito ha subito e sta subendo degli scossoni interni non indifferenti. Ed è proprio il Pd, che sta cercando di stringere un’alleanza con un partito in preda alla scissione.

Il dilemma del Pd

Se il Pd non ha avuto grossi problemi ad appoggiare la figura di Draghi grazie a quella responsabilità istituzionale che da anni lo contraddistingue, gli imbarazzi riguardano in particolare il rapporto con il Movimento 5 stelle. Così come il Movimento 5 stelle si è ritrovato a fare quadrato intorno a Conte, sopprimendo i dissidenti interni, per poi ritrovarsi con poco in mano, allo stesso modo il Pd ha cercato un asse con il Movimento per poi ritrovarsi a votare per il governo Draghi, insieme alla Lega. Conte è il più alto punto di equilibrio tra le forze, ripeteva il segretario dem Nicola Zingaretti. Ma questa strenua difesa dell'”avvocato del popolo” non è piaciuta proprio a tutti all’interno del Pd. Non piace a tutti l’idea di creare un fronte comune solido con il Movimento 5 stelle, a partire dalle amministrative. Secondo alcuni così il Pd rischia di rianimare a forza un progetto distrutto alle sue origini, quando invece dovrebbe cogliere questa pausa forzosa per ripensare radicalmente la propria identità, senza appoggiarsi a forze terze. E già, perché chi vuole essere il Pd?

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Recentemente si è molto parlato del progetto di intergruppo lanciato in Senato tra dem, Movimento e LeU. Ad attaccare l’iniziativa (proposta non si sa bene da chi, viste le dichiarazioni contraddittorie) diverse ale del Pd. A contestare l’intergruppo sia l’area più a sinistra, rappresentata da Matteo Orfini, sia quella di Base Riformista, legata a Luca Lotti e Lorenzo Guerini e, in qualche modo, a Matteo Renzi. “Basta con la subalternità di questi mesi, ora siamo in una fase nuova, il governo Conte è superato. Ora il Pd deve recuperare il suo profilo e le sue idee per aiutare il governo Draghi“, rivendica Matteo Orfini. “Non sia una gabbia politica per limitare la nostra azione”, dice Andrea Romano. Intanto, Bersani da LeU non ha dubbi: “O si va a messa, o si sta a casa. Lavoriamo a un progetto politico. Altrimenti ci riposiamo, e poi però c’è solo la destra”. L’asse va consolidato, dice l’ex esponente Pd. Ma conviene veramente?

Il Pd cerca un alleato strategico (e si accentra)

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MeteoWeek.com (da Getty Images)

La sensazione è che il Pd si trovi imbrigliato in una continua situazione emergenziale. Non ha abbastanza forza per imporsi autonomamente e cerca alleanze strategiche in grado di fornirgli quella forza elettorale. Il Movimento è sembrato la forza più congeniale (tra l’altro offerta da Matteo Renzi). Certo, bisogna dare atto a una evidenza: il centrosinistra si trova in una posizione di accerchiamento. Tutto l’asse della politica italiana sembra essersi spostato al centro o al centrodestra. A sinistra restava LeU, che ora sta affrontando le sue belle grane interne legate al voto al governo Draghi. Ma al di là della situazione attuale, che ovviamente richiede una certa moderazione politica, il Pd ha da tempo, ormai, scelto la strada moderata e centrista. Matteo Renzi ha contribuito notevolmente a spostare questo asse, nei tempi in cui era esponente Pd. Ora lo stesso senatore toscano ha contribuito a rivelare le fratture interne ai dem scatenando una crisi di difficile gestione. Ma l’accentramento è veramente la strategia più astuta?

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Un’altra risposta

Alle tante voci che sostengono di sì, si oppone quella di Mario Tronti, ex professore di Filosofia all’Università di Siena, eletto nelle fila del Pd nel 2013. In un’intervista al Riformista Tronti afferma: “Aspetto con pazienza che la mia sinistra si liberi da questa vera e propria ossessione per i 5Stelle. Lasciate stare. Catturate, se ne siete capaci, le truppe residue di questa armata Brancaleone e andate avanti per la vostra autonoma strada”. Come? Con un atto di coraggio. “La sinistra si vada a riprendere gli operai che votano Lega, gli emarginati delle periferie metropolitane che votano Fratelli d’Italia, i disoccupati del Sud che non passeranno dal reddito di cittadinanza al posto di lavoro, gli sfruttati precari invisibili dalla pelle di ogni colore, cerchi disperatamente di offrire garanzie al futuro delle giovani generazioni, presti attenzione alla inedita proletarizzazione dei ceti medi, vada a reinsediarsi nel territorio perduto del nord produttivo, non guardi ai moderati che sono rimasti in pochi ma agli arrabbiati che sono cresciuti in tanti. La maggioranza di popolo sta lì”. Quale dei due fronti avrà ragione? Quello alla ricerca di alleanze strategiche per alzare la voce in un futuro indefinito, o quello che crede che il supporto arriverà solo dopo aver alzato la voce?

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