Coronavirus, il crack dei cinesi in Puglia

Ristoranti e negozi chiusi, personale licenziato. Ma il problema riguarda tutta l’Italia: dall’inizio dell’epidemia chiuse 5000 attività a livello nazionale.

Un ristorante cinese desolatamente vuoto

Uno dei primi a chiudere è stato il ristorante Red Sky di Bari, molto noto. Il gestore, chiamato affettuosamente Paolo dai residenti del quartiere, ha dovuto fare i conti con l’amara realtà. Complice sicuramente la cattiva informazione ed i tam tam mediatici, la gente non ha fiducia, e lascia i ristoranti cinesi deserti. Nel caso del Red Sky, duecento posti quasi sempre vuoti:  «Non entrava più nessuno – spiega Paolo -. E i costi da pagare erano troppo elevati. Così ho comunicato al Comune la chiusura dell’attività». A casa i dieci dipendenti, tra italiani, filippini, thailandesi e del Bangladesh. «Li considererò in ferie per un mese. Poi, vedrò». La sua storia è quella di tanti imprenditori cinesi, alcuni dei quali nati e cresciuti in Italia. Le prime vittime del disastro economico che il coronavirus potrebbe determinare in questo paese.

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Come la storia di Marco Zhou, che è nato a Lecce dove la nonna Xiao Feng arrivò trenta anni fa. Aprì il ristorante Shangai, che diventò presto un punto di riferimento per i leccesi. In tanti anni non era mai capitato di avere il locale praticamente deserto per tante sere di fila: «Siamo passati da una media di 40 coperti a 5 a serata» spiega Marco. Le hanno provate tutte, i ristoratori cinesi ora in crisi: hanno pubblicato su Facebook le fatture dei prodotti acquistati, che ne indicavano la provenienza italiana. Niente da fare: il processo di psicosi che si è innestata in Italia con il coronavirus è più forte di tutto.  Sono 5mila i locali che in questi giorni hanno chiuso nel nostro Paese. Tradotto in termini finanziari vuol dire 2 milioni al giorno di mancato incasso e una perdita del 70 per cento del fatturato. Senza considerare poi il calo di turismo cinese nel nostro paese: parliamo di altri 500mila euro al giorno in meno.

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La comunità cinese in Puglia è numerosa e molto attiva: sono 6.108 nell’ultimo censimento, rappresentano il 4,4 per cento di tutta la popolazione straniera. Hanno negozi di abbigliamento, di casalinghi, sartorie artigianali, gestiscono punti vendita all’ingrosso e ristoranti. La loro presenza registra un +3,9% rispetto all’anno scorso. In testa Bari e provincia (2.406), seguita da Lecce (1.079), Taranto (813), Foggia (728), Bat (632) e Brindisi (450).
L’arrivo del coronavirus sta cambiando tanto del loro rapporto con l’Italia. Lo spiega bene Dao, anche lui titolare di un ristorante: «Innanzitutto colgo dei cambiamenti all’apparenza impercettibili. Come quando per strada vedo la gente che scende dal marciapiede per non passarmi accanto. Mai successo prima. Poi, perché le nostre attività si stanno lentamente svuotando. Il mio non è il primo ristorante cinese chiuso a Bari. Non si lavora più in un paio di locali in centro, altri negozi hanno abbassato già la saracinesca. La situazione, purtroppo, non può che complicarsi. Lo dico sulla scorta dell’esperienza maturata con il virus della Sars».

Non ha dubbi, Dao: «Il Coronavirus arriverà anche qui. È una questione matematica legata ai contagi che aumenteranno in maniera esponenziale. Si tratta di capire solo quando, non se e di non farsi trovare impreparati. La comunità cinese in Puglia sta già facendo scorte di riso prodotto in Italia, mascherine monouso e disinfettanti. Semplici precauzioni. Come quella di evitare i luoghi dove c’è molta gente. Oppure le misure di autocontrollo adottate spontaneamente da quei pochi rientrati in Italia dopo il Capodanno cinese. Sono stati a casa per due settimane per evitare eventuali contagi». Ma i timori della gente ci sono, e possono anche essere considerati legittimi, a prescindere dall’allarmismo e dalle fake news: «Viviamo qui da decenni e utilizziamo materie prime italiane» dice ancora Dao. «La carne di pollo, ad esempio, la acquisto da Aia e Amadori».
A concludere la riflessione è Paolo, che in realtà si chiama Jiyanyun: «Passerà anche questa. Finora però il conto lo paghiamo solo noi. Intanto abbiamo raccolto soldi per acquistare materiale sanitario da inviare nelle regioni epicentro del virus. Con il blocco dei voli diretti tra Italia e Cina abbiamo trasportato il tutto in Belgio. Qui la merce, specialmente mascherine, è stata caricata su un aereo. Il principio di solidarietà nella nostra comunità sparsa per il mondo, con quanti sono rimasti nella madrepatria, è molto sentito».

 

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