Italia in lockdown, i numeri dicono che qualcosa non sta funzionando

A che punto siamo con il lockdown? Il Governo ha compiuto le giuste scelte? Sono alcune delle domande a cui abbiamo tentato di dare una risposta.

(ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images)

Il 9 marzo il Premier Giuseppe Conte ha deciso il lockdown con un decreto che si poteva riassumere nell’espressione “io resto a casa” per invitare gli italiani a restare tra le proprie mura domestiche e a rispettare le misure restrittive imposte dal Governo. Erano trascorsi già 17 giorni dalla mezzanotte del 20 febbraio, quando si ebbe notizia del primo caso di contagio in Italia: il 38enne di Codogno. Nel corso della giornata, il 21 febbraio, i contagiati sarebbero saliti a 15 e Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, sarebbe diventato un primo focolaio. Arriva anche il primo morto, un 78enne deceduto alle 22,45 di quel giorno cruciale.

L’emergenza era già scattata il 31 gennaio, quando in Gazzetta Ufficiale venne pubblicata una delibera del Consiglio dei Ministri in cui si decretava per sei mesi lo Stato di Emergenza, già sancito dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si prevedeva, cosa che poi è stata, un’imminente crisi internazionale dovuta ad agenti virali trasmissibili: il covid-19. Lo stesso Walter Ricciardi, direttore dell’Oms, aveva gettato l’allarme su quanto stava per accadere dicendosi poi scettico sulla decisione del governo italiano di bloccare tutti i voli da e per la Cina. Una decisione definita dal direttore priva di evidenza scientifica in quanto, tramite altri scali internazionali, nel nostro Paese potevano comunque entrare persone provenienti dalla Cina.

Tra il 30 gennaio e il 21 febbraio – un buco di circa venti giorni – non ci sono stati altri provvedimenti da parte del Governo italiano. Nulla è stato fatto, pur agendo in prevenzione, per potenziare le strutture ospedaliere esistenti, o crearne di nuove, così da rendere il sistema sanitario pronto per l’emergenza e più lontano dal collasso. Inoltre, nulla è stato fatto per la messa a disposizione di dispositivi di protezione, come le mascherine, la cui reperibilità è ancora adesso un problema cruciale. Così, quando il disastro si è verificato, venti giorni dopo, c’è stata la corsa ai ripari. Ma era già tardi.

E’ giusto chiedersi se il lockdown funziona?

Il lockdown totale è arrivato il 9 marzo scorso, quando le vittime erano già 463. Il virus era ormai dilagato e diffuso, tanto che il 12 marzo le vittime sono già 1.016 e il 19 marzo 3.405. La questione cruciale, su cui oggi molti si interrogano, è se la chiusura funziona o meno. No, a dire di molti. E parlano i numeri. Facendo due calcoli, dal contagio alla manifestazione dei primi sintomi intercorrono mediamente 14 giorni. In linea teorica, dopo 15 giorni di lockdown, le persone contagiate alla data del 10 marzo, ma ancora senza sintomi, avrebbero dovuto manifestare i sintomi della malattia al più tardi entro il 25 marzo. A quella data, dunque, avemmo dovuto avere il “picco” e, dopo, un’inversione di tendenza più o meno rapida.

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Ma così non è stato. A fronte di una mancata inversione di tendenza, il Governo rilancia e fissa la fine del lockdown al 13 aprile. E quali sono stati i numeri quel giorno? I morti sono passati da 14.681 a 20.465, le persone in terapia intensiva da 4.068 a 3.268, i ricoverati da 28.741 a 28.063, le persone in isolamento domiciliare da 52.570 a 72.333. Le persone “ufficialmente” contagiate sono continuate a salire, inesorabilmente, durante tutti i 45 giorni di lockdown.

Altra incertezza, riguarda i dati che ogni giorno vengono riferiti dalla Protezione civile. Numeri poco affidabili, visto che già in tempi normali raccogliere informazioni da fonti diverse – le Regioni, ognuna con un sistema sanitario e con propri criteri di raccolta dati – risulta arduo. In questa situazione, tanto più.  Lo stesso Angelo Borrelli, a capo della Protezione Civile, riferisce che il dato dei contagiati è sottostimato: un rapporto di 1 a dieci con un numero di positivi, in Italia, che oscilla tra i 5 ed i 6 milioni. Ecco allora che il numero dei contagi non è reale, anche per via degli asintomatici che non vengono considerati. L’unico elemento che può fornirci indicazioni, molto vaghe, è la tendenza: cioè se il dato numerico di cui parla la Protezione Civile progredisce o arretra.

I numeri della Protezione Civile 

Non trasformeremo l’Italia in un lazzaretto“, aveva detto il premier Conte il 22 febbraio, quando era ancora tempo. Ma il 13 aprile siamo arrivati al numero di 159.561 malati, un numero enorme e sottostimato che rileva la tendenza, costante, di un incremento dei contagi, ogni giorno, del 2-3%. Il lockdown, quindi, prosegue fino al 3 maggio, quando dovrebbe iniziare la fase 2, quella della riaperture. Ma, dati alla mano, è evidente che siamo ancora nella prima fase e pensare che si scenda così rapidamente prima del 3 maggio non appare realistico.

Tuttavia, ora siamo in un limbo. Da una parte, gli industriali chiedono di riaprire, dall’altra il mondo scientifico che chiede il contrario. Hanno ragione entrambi. Ma al centro resta sempre lui, Giuseppe Conte. Il suo, è stato un problema di metodo. Avrebbe potuto, ad esempio, fissare soglie numeriche per stabilire sia la gradualità del lockdown sia l’allentamento delle misure. Ma anche di merito, ed attiene alla fase due. Nonostante un rischio pandemia noto da gennaio, il Governo non è ancora riuscito ad rendere agevole l’accesso a dispositivi di protezione che potrebbero essere obbligatori proprio per la seconda fase. “Possiamo parlare di modello italiano non solo per la strategia di contrasto ma anche di un modello italiano per la strategia di risposta economica all’epidemia“, ha detto il premier Conte lo scorso 16 marzo. Bisogna capire se è possiamo considerarlo un modello positivo. E c’è da augurarsi che, travolti dalla prima ondata, l’Italia non si trovi scoperta anche dinanzi alle seconda.

Cosa si poteva fare di diverso?

Facile criticare con il senno di poi, si dirà. E’ vero e non lo è, nel senso che molte informazioni erano note con largo anticipo, e avremmo potuto arrivare preparati. E se il lockdown è stato necessario, è anche vero che tra gli esperti si getta l’allarme sui contagi intra-famigliari, cioè quelli che avvengono proprio mentre restiamo in casa per proteggerci dal virus. Un’eventualità che non sembra sia stata presa neanche  in considerazione era quella di un lockdown limitato a particolari fasce di età della popolazione, come gli anziani.

Oltre alla paura, ora, restano le domande. Domande che dopo mesi di pandemia non trovano risposte certe e pesano perché su di esse si gioca la strategia di contrasto al virus e larga parte del nostro futuro. Come è possibile parlare di “guariti” da Coronavirus se, per esso, non abbiamo una cura? Come sappiamo se i guariti possono incorrere in ricadute e contagiare gli altri e dopo quanto tempo? Come sappiamo se gli asintomatici guariscono o sono immuni? Domande cruciali, attuali e concrete, che dovrebbero trovare risposta ma che restano prive di riscontro.

Il 19 aprile, l’ennesimo bollettino della Protezione Civile ci dice che il totale delle persone che hanno contratto il virus è 178.972, con un incremento rispetto a ieri di 3.047 nuovi casi. Il numero totale di attualmente positivi è stato di 108.257, con un incremento di 486 assistiti rispetto a ieri. La strada è ancora lunga, insomma. Eppure, il 27 gennaio – quando l’epidemia era già un’eventualità concreta – il Premier non esitò a dire che l’Italia – con 5000 posti di terapia intensiva sull’intero territorio nazionale, senza dispositivi di protezione per il personale sanitario, senza ventilatori e senza una struttura di raccolta, ricezione e analisi tamponi – era “pronta“. Ma forse, nel modo sbagliato.

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