Gli anni più belli | Il ritorno di Gabriele Muccino è un’epopea sull’amicizia

In arrivo nelle sale italiane il 13 febbraio 2020, Gli anni più belli è il nuovo lavoro di Gabriele Muccino, con Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria e Micaela Ramazzotti.

Giulio (Pierfrancesco Favino), Paolo (Kim Rossi Stuart) e Riccardo (Claudio Santamaria) sono amici da una vita. Accanto a loro, per lunghi o brevi periodi, c’è anche Gemma (Micaela Ramazzotti), collante o elemento di separazione a seconda delle circostanze. Ma la vita è piena di sorprese, sebbene siano necessari una buona dose di fortuna ed evidentemente il saper scendere a compromessi.
La domanda è, quali sono i valori a cui non si deve mai rinunciare?

Gli anni più belli, la recensione del film di Muccino

Gabriele Muccino torna alla regia di un’opera che più emblematica di così non si poteva immaginare. Emblematica soprattutto del suo cinema, della sua poetica e anche della sua, in qualche modo particolare, estetica.
Sin dalle sue origini, la filmografia mucciniana si distingue per alcuni elementi, più o meno ripetuti nel corso degli anni e della narrazione.

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Corse a perdifiato, tradimenti laceranti, grandi passioni, il tutto rigorosamente accompagnato da un utilizzo della parola a dir poco eccessivo. Non solo per la quantità della scrittura in termini letterali, quanto piuttosto per questa scelta di far spesso e volentieri gridare i protagonisti l’uno addosso al’altro.

Tenendo a mente questo, Gli anni più belli somiglia a un compendio vero e proprio. Per circa 130 minuti si viene bombardati di sfoghi, confessioni imperdonabili, veleni, consigli non richiesti, in un crescendo apparentemente senza fine. Decisamente verso un baratro da cui non esiste ritorno.

Gli anni più belli, un arco temporale che va dagli Anni di Piombo al Nuovo Millennio

Sviluppata in un arco temporale piuttosto ampio – il motivo diventa chiaro poco a poco – la pellicola attraversa tutti gli anni Ottanta e Novanta, andando a concludersi nel Nuovo Millennio. Ecco allora che la grande Storia (quella degli Anni di Piombo, della caduta del Muro di Berlino, dell’attentato alle Torri Gemelle giusto per intenderci) va inevitabilmente e significativamente a incidere sulle esistenze di ciascuno dei protagonisti.

Le loro sono senza dubbio storie più piccole, perché personali, intime, private, ma ciò non toglie che abbiano un valore imprescindibile. Ed è quello che più conta nell’economia della narrazione. Ne è un primo lampante esempio l’incontro tra Giulio, Paolo e Riccardo: cosa sarebbe stato infatti se i primi due non avessero deciso di soccorrere il terzo durante lo scontro tra i manifestanti e la polizia? Si sarebbero incontrati lo stesso in un’altra occasione?

Gli anni più belli, l’amicizia come unica ancora di salvezza

Fulcro della storia, l’amicizia tra i tre uomini é ciò che muove ogni cosa, alla quale si tende sempre a tornare come fosse un nido sicuro e, forse, l’unica vera ancora di salvezza in un mondo senza più punti di riferimento.
Muccino espone un discorso semplice e diretto, oltre che molto sentito, su quella che è la società attuale, su come la percepisca e su cosa significhi far parte di una generazione schiacciata dalle forti identità, presenza e partecipazione di quella precedente. Chiaro come il film sia anche un modo di metabolizzare, di prendere atto e magari anche far riflettere.

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Il grosso problema sta nel fatto però di non riuscirci appieno. Laddove L’ultimo bacio o L’estate addosso centravano il discorso, ancorandosi a esso e portandolo avanti tra le mille sfaccettature che poteva assumere, Gli anni più belli sembra perdersi in un calderone di suggestioni. Per carità, l’intento é apprezzabile e l’impegno evidente, ma è il risultato a lasciare dubbiosi.

Gli anni più belli, un calderone di suggestioni che non convince appieno

Peccato soprattutto perché il cineasta romano conosce bene il mestiere e sa come mettere in luce le abilità proprie e di chi lo affianca – vedi anche in questo caso l’utilizzo delle musiche di Nicola Piovani e delle canzoni di Claudio Baglioni (sua è la chiusura con il brano che riprende il titolo del film). Forse le troppe tematiche trattate, a volte slacciate tra loro e quindi forzatamente riunite, non hanno permesso di aver ben chiara la visione generale. Motivo per cui anche la sceneggiatura spesso ne risente, e così la recitazione degli attori, talvolta esageratamente marcata.

Nonostante ciò vanno riconosciuti alcuni elementi positivi al progetto, per lo più sostenuto dalla figura di Paolo (Rossi Stuart é probabilmente l’unico davvero in parte) e dal suo rapporto con Gemma, da cui tutto parte e a cui tutto torna.
In fondo la vita non è che una grande ruota con dei cicli che si ripetono – da qui anche la scena finale durante i titoli di coda.

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