“Errori decisivi? Il Pronto Soccorso di Alzano e la mancata zona rossa”

In un’intervista sull’Huffington Post l’inviato di guerra Gigi Riva analizza quello che è successo nella “sua” Val Seriana, e prova a ragionare sulle responsabilità.

Una situazione inattesa, e per questo difficile da gestire. Però degli errori ci sono stati, e su quelli è necessario indagare e verificare responsabilità. Questo, in sintesi, il pensiero del giornalista Gigi Riva, storico corrispondente di guerra del “Giorno” e dell’ “Espresso”: originario della Val Seriana, sulla gestione dell’emergenza coronavirus ha ragionato, si è posto delle domande, ed è giunto a delle conclusioni. «Tutta la mia famiglia vive a Nembro. Prima di poter tornare da loro, bloccato in Romagna, ho passato le giornate attaccato al telefono con parenti e amici» racconta l’inviato.  E no, non se la sente proprio di cavalcare il clima da caccia alle streghe che accompagna l’inchiesta della procura di Bergamo, che punta a verificare cosa non ha funzionato nei giorni drammatici in cui si doveva decidere se chiudere i due focolai di Nembro e Alzano. Certo, in quei giorni decisivi tra fine febbraio ed inizio marzo «c’è stata una sottovalutazione collettiva, generalizzata, che però va anche periodizzata. Il sentore che stava succedendo qualcosa di strano lo abbiamo il 23 febbraio, mi pare fosse domenica, al Pronto Soccorso di Alzano, che viene chiuso e riaperto nel giro di due ore, con una sanificazione ‘fatta in casa’. Ma anche allora, a essere onesti, la sensazione generale fino alla fine di febbraio non era di pericolo e così grave. Imminente sì, ma circoscritto». In quei giorni anche la politica non sembrava consapevole di quello che stava arrivando: basti ricordare “Milano non si ferma”, la campagna per non bloccare il capoluogo lombardo che oggi appare quasi surreale. Era, appunto, fine febbraio: «Sì, erano anche i giorni in cui Bonometti, il capo della Confindustria lombarda si opponeva alla zona rossa e a fermare la produzione, ed esponeva il suo punto di vista al presidente Fontana. Le relazioni sulle ipotetiche zone rosse non sono state ancora rese pubbliche. Circolavano le ipotesi più disparate, quella minimale era bloccare solo Alzano e Nembro. In generale, bloccare tutto non era una prospettiva condivisa, non era nel comune sentire della gente. Anche questo va detto per onestà. Chi è senza peccato scagli la prima pietra» commenta Riva, che poi torna a ragionare sulla Val Seriana, e sulla possibilità di farla diventare “zona rossa” immediatamente: «La Val Seriana è attraversata da una strada, bloccare i due paesi, che sono contigui e senza soluzione di continuità, voleva dire bloccare tutta la valle. Tanto è vero c’è chi sosteneva che la chiusura avrebbe riguardato di fatto non 25 mila persone ma 250 mila. In molti non lo volevano. C’era stato il caso dei due cinesi trovati con il Covid a Roma, però circoscritto, tanto che si diceva: “Vedete che si può contenere?”. Inoltre fino al paziente uno di Codogno, fino al 21 febbraio, il Covid non era stato rinvenuto. Ma bisogna fare un passo indietro, addirittura a fine novembre, quando molti medici nel bergamasco avevano già riscontrato polmoniti anomale. I pazienti con cui ho parlato mi hanno riportato la frase: “Gira qualcosa che non ci piace, un virus che resiste ai normali antibiotici e di cosa non sappiamo praticamente nulla”».

Siamo sempre nei giorni decisivi di fine febbraio: quelli in cui, forse, scelte più radicali avrebbero consentito di vivere diversamente i mesi successivi. Inconsapevolezza, ma anche la volontà di essere per forza ottimisti, di non ammettere quello che stava avvenendo, di cui c’erano comunque avvisaglie, come ricorda Riva: «In Val Seriana la percezione cambia nei primi giorni di marzo quando l’Istituto superiore di sanità e il Comitato tecnico scientifico cominciano a considerare il focolaio e consigliano al governo di chiudere. Carabinieri, poliziotti e militari iniziano a fare ispezioni nella zona. Due alberghi della bassa bergamasca vengono requisiti. Camionette militari si accampano in un parco pubblico di Alzano. Era evidente a tutti che si stesse studiando come allestire la zona rossa. Io stesso – era martedì 3 marzo, alla vigilia della chiusura del numero del giornale – suggerivo di tenere aperto il pezzo per aggiornarlo con la decisione della zona rossa». Ma anche in quel momento – ogni giorno è decisivo, durante una epidemia così violenta e sconosciuta – si è deciso di aspettare. Alla fine si arriva all’8 marzo, quando a decidere è il governo. Forse in quesi giorni si consuma l’errore decisivo: su questo Riva ha le idee chiare: «Il peccato originale è la riapertura dopo poche ore del Pronto Soccorso di Alzano. Avendo capito che lì c’erano un numero consistente di casi che andavano isolati, forse avremmo potuto scrivere una storia diversa. Se gli errori conseguenti alla predetta sottovalutazione diffusa di un evento di cui non avevano contezza e riferimenti, non dovrebbe avere rilevanza penale, altra cosa dobbiamo dire nell’ambito del Pronto Soccorso, in cui abbiamo diversi elementi che ci fanno dire che non è stata sottovalutazione. Io stesso nell’ultimo dei miei articoli racconto di questa lettera che il direttore sanitario dell’ospedale di Alzano manda al direttore generale in cui sostiene che è una follia riaprire. Qui siamo nel campo di una colpa, di un dolo. Quanto grave lo stabilirà la magistratura». 

Per Riva la mancata chiusura, o meglio la riapertura di quel Pronto Soccorso è uno dei momenti-chiave di tutta la vicenda. Una “sliding door” che avrebbe potuto cambiare parte della storia: ma non c’è solo questo. Perchè decidere subito di trasformare in Zona Rossa la Val Seriana forse avrebbe contribuito a gestire meglio tutta la situazione: «Questo è l’altro versante su cui indagare. Il secondo step in quanto a responsabilità. Qui la discussione appare infinita, ma invece ora è tutto chiaro. Sappiamo che esiste una legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Che entrambe potevano decidere. Come in decine di casi è accaduto dopo nelle altre Regioni che hanno deciso in autonomia. E’ pero vero anche che allora, dopo i casi di Vo’ Euganeo e Codogno, la sensazione di tutti fosse che le zone rosse le dichiarava il governo, visto anche il dialogo privilegiato con Iis e Cts. E anche il dislocamento sul territorio di militari, carabinieri, esercito, faceva pensare a un intervento deciso a livello centrale. Semmai è stravagante che un assessore regionale come Gallera dichiari solo mesi dopo, ad aprile, con un ritardo abnorme, di aver appreso che lo potevano fare anche loro, dal Pirellone». Eccola, la responsabilità politica: la Lombardia poteva prevenire la decisione del governo, e scegliere di chiudere tutto. Questo, insieme al sistema sanitario lombardo, ha contributo a creare il disastro: «E’ stravagante che una regione come la Lombardia in prima fila da anni nel reclamare autonomia non ne abbia fatto uso proprio quando serviva. E’ come se non si fossero resi conto che potevano reclamarla. Altro problema politico ormai evidente è che il sistema misto pubblico-privato alla prova dei fatti non ha retto. C’è stato un assoluto abbandono dei medici di base lasciati soli sul territorio a fare ricette, e una non fattiva collaborazione con il privato sui posti di terapia intensiva. Questa è la lezione del Covid che spero arriverà a correggere queste due storture nel sistema».

 

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