I talebani riconquistano anche Herat: era il quartier generale italiano

Sembra inarrestabile l’avanzata dei Talebani in Afghanistan, che dopo il ritiro delle truppe internazionali stanno riprendendosi velocemente tutto il paese. Come se i venti anni dall’intervento americano e poi internazionale del 2001 non fossero mai passati.

Dopo nemmeno tre settimane di scontri, le forze talebane hanno conquistato anche la città di Herat. Proprio in quella città, tra le più importanti dell’Afghanistan, l’Italia per venti anni ha avuto il suo quartier generale: ad inizio giugno si era celebrata la cerimonia dell’ammaina bandiera alla presenza del ministro della Difesa Guerrini, e a poco più di due mesi dal ritiro dei nostri soldati la città è caduta. Una vicenda che ci colpisce in qualche modo da vicino, e che ci fa rendere meglio conto di quello che sta avvenendo: una catastrofe militare e politica che coinvolge innanzitutto gli Stati Uniti e poi tutti i paesi alleati che in questi venti anni non sono stati evidentemente in grado di stabilizzare il paese. Una sconfitta di enormi dimensioni che è costata centinaia di migliaia di morti e miliardi di euro: oggi possiamo purtoppo affermare che quei soldi siano stati quasi tutti gettati via, senza ottenere risultati di lungo termine. Tra l’altro, per quel che riguarda l’Italia, rimane aperto il problema degli interpreti afghani – che per venti anni hanno assistito il nostro personale militare – e delle loro famiglie: gli era stato promesso un trasferimento in Italia che potrebbe non esser più possibile garantire, abbandonandoli alla mercè dei talebani. La caduta di Herat, insieme a quella delle altre città che – una dopo l’altra – sono prese dalle milizie talebane indica chiaramente come l’esercito regolare afghano non sia in grado di affrontare il nemico che incredibilmente, dopo venti anni di occupazione e di operazioni militari, sembra più in forma che mai. Le forze islamiche, dopo aver liberato i loro prigionieri detenuti nelle carceri della città, si sono diretti verso il palazzo governativo ed hanno issato la loro bandiera. Fonti stampa locali riportano notizie della cattura di Ismail Khan, il ‘leone di Herat’, già eroe della resistenza anti-sovietica e “signore della guerra”, che aveva mobilitato uomini e mezzi nel tentativo di resistere all’assalto dei Talebani contro la città.

Ora l’obiettivo dei Talebani è Kabul

La caduta di Herat è stata anticipata di qualche ora dalla resa di  Ghazni, altra importante città ma sopratutto decisiva dal punto di vista strategico. E’ infatti considerata una vera e propria “porta” verso la capitale Kabul, che ora è veramente nel mirino dei Talebani. Gli Usa stanno inviando tremila soldati per evacuare l’ambasciata a Kabul, mentre molti altri paesi stanno invitando i rispettivi cittadini ad abbandonare immediatamente il paese. Il clima che si respira nella capitale viene descritto teso, preoccupato. Il panico si sta diffondendo, come in tutto il paese che sta scivolando nel caos: vengono segnalati gruppi di banditi che, approfittando della situazione confusa, si dedicano a saccheggi e rapine. Esattamente come avvenne alla fine degli anni Ottanta, quando a ritirarsi furono le truppe dell’allora Unione Sovietica.

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Le responsabilità degli Stati Uniti e delle “potenze occidentali”

Non c’è dubbio che la decisione repentina di ritirare i contingenti militari, presenti in territorio afghano da venti anni, sia stato una sorta di “via libera” ai Talebani, che comunque già da anni erano chiaramente in crescita, militarmente e logisticamente parlando. Ed è qui che emerge la responsabilità drammatica degli Stati Uniti, della NATO e di tutti i paesi – quindi anche dell’Italia – che per venti anni hanno impegnato risorse incredibili per non ottenere nulla. Ricordiamo come l’operazione militare in Afghanistan iniziò subito dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle, a settembre del 2001. Prima i bombardamenti, poi l’invio di truppe di terra rappresentarono la risposta militare all’aggressione effettuata da Al Quaeda, organizzazione jihadista capeggiata da Osama Bin Laden che era ospitata e sostenuta dal regime talebano, al potere dalla fine degli anni ’90. L’obbiettivo era quello di sconfiggere Al Quaeda, e quindi di abbattere il regime talebano. Poi ci fu l’invasione dell’Iraq, e cambiarono le priorità strategiche degli americani, e quindi dei loro alleati. Con la morte di Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio del 2011 da un commando di Navy Seal ad Abbottabad, in Pakistan, probabilmente ha iniziato a venire meno la principale causa di interesse per gli Stati Uniti in Aghanistan. L’attacco ai talebani nasceva dalla necessità di “vendicare” l’11 settembre, e la morte di Bin Laden era la principale risposta che gli americani aspettavano. In realtà in venti anni il mondo è cambiato velocemente, e gli obbiettivi strategici statunitensi sono mutati. E come spesso hanno fatto in passato, quando uno scenario non è più rilevante per loro, gli americani lo abbandonano. L’esempio più recente è l’Iraq, altro obbiettivo della “guerra al terrorismo”: dopo aver abbattuto il regime di Saddam Hussein, dopo qualche anno di occupazione gli Usa hanno iniziato a ritirarsi senza preoccuparsi di quello che avveniva politicamente nel paese. Il risultato fu la nascita dello Stato Islamico che, nel 2014, arrivò a conquistare quasi metà del territorio irakeno: a quel punto fu necessario intervenire di nuovo, a sostegno dell’esercito irakeno e dei curdi, ed a costo di altre migliaia di morti e nuove sofferenze per i civili.

Rischio disastro umanitario

”Siamo sull’orlo di un disastro umanitario, ed il peggio deve ancora venire”: la guerra porta sempre con se emergenze sociali collaterali, ed in queste settimane la situazione in Afghanistan sta precipitando. L’allarme arriva dalle agenzie delle Nazioni Unite, secondo le quali la salute e la sicurezza della popolazione dell’Afghanistan stanno diventando sempre più disperate mentre i Talebani continuano la loro avanzata. Testimonianze dirette, riportate dall’Unhcr e dal World Food Programme, raccontano di migliaia di persone in fuga, con tanti bambini e tante donne in situazione disperata. Inoltre il rifornimento alimentare per circa un terzo della popolazione tra breve non sarà più potuto essere garantito, e ci sono due milioni di bambini soli che necessitano aiuti. E, appunto, ”il peggio deve ancora arrivare”. Entro l’anno saranno necessari 200 milioni di dollari per rispondere alla fame.

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L’ipocrisia della politica, anche in Italia

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si è messo in contatto con il presidente del Consiglio Mario Draghi per fare il punto sulla situazione in Afghanistan soprattutto alla luce degli ultimi sviluppi, in seguito all’avanzata dei talebani. A quanto si apprende, durante il colloquio avvenuto nella tarda serata di ieri è stata ribadita la necessità di procedere con la massima attenzione per mettere in sicurezza anche il personale dell’ambasciata italiana a Kabul. Un confronto surreale, se si pensa che fino a due mesi fa le truppe italiane avevano la responsabilità, condivisa con le forze afghane, della gestione della sicurezza in una parte dell’Afghanistan. Sorprende, non solo in Italia ma in tutti i paesi che hanno partecipato alla missione militare, l’atteggiamento di sorpresa, di preoccupazione: non era chiaro che i talebani, mai sconfitti in venti anni, nel momento esatto in cui la Nato avesse mollato la presa avrebbero ripreso l’offensiva? Ma sopratutto, per quale motivo sono state spese montagne di soldi e mandati a morire migliaia di soldati? Che senso hanno, alla luce delle notizie di questi giorni, tutte le parole spese negli anni a giustificare, solo in Italia, la spesa di più di 8 miliardi di euro e la morte di 53 militari in missione? Per non parlare delle centinaia di migliaia di morti afghani. Se c’è un momento in cui l’Afghanistan ha bisogno di aiuto è questo: a partire dagli interpreti abbandonati alle rappresaglie talebane.

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